Al di là dello spettacolo, oltre l’intrattenimento spicciolo, fuori dai parametri dell’opinabile resta il fatto che la televisione è contenitore dei nostri tempi e come tale viene riempito. La sostanza che vi passa dentro arrivandoci futile a volte, insostenibilmente grave altre, ora incipriata di superficialità, ora intrisa di pesante crudezza, è rivelazione di quanto sia inutile e insensato affermare di odiare la tv. Non si può odiare un pezzo di plastica poggiato su un mobile-immobile allo stesso modo in cui si può amare o odiare il flusso incontrollabile del divenire, come a dire “detesto i romanzi gialli”, “il latte mi rivolta lo stomaco”, “non sopporto i cori russi, la musica finto rock, la new wave italiana, il free jazz punk inglese…”. Non si può rifiutare a priori una scatola senza immaginare cosa potrebbe esserci dentro. Non avrebbe senso.
“Se avesse comunicato così, oggi che mondo sarebbe?” si interroga un tanto discusso spot pubblicitario che da qualche settimana fa cadere la forchetta dalle mani di molti, seduti tranquillamente al tavolo quadrato della reiterata quotidianità. La tv fa schifo, ne siamo convinti, eppure la forchetta cade, cade e il suo rumore urta fastidiosamente qualcosa che abbiamo dentro. Sdegno per l’ennesima strumentalizzazione di un simbolo? Commozione per un’idea tanto semplice da risultare originale, trasformando un veniale spot in un “corto d’autore”? O forse soltanto il giungerci del paradosso, svelato involontariamente alle nostre coscienze: comunicare uno schermo attraverso uno schermo, grande tanto da arrivare a tutti. Comunicare cosa? A tutti chi?
E’ allora che la morbidezza delle parole non tradotte di un Ghandi senza-tv, si fonde e si confonde a rigide immagini di torture, giochi deleteri progettati e realizzati da menti sempre più folli.
E la forchetta cade.
E a cadere è la certezza che ripudiare la tv possa servire a qualcosa, quando a 20 anni dal “Band Aid” del 1985 (concerto rock di beneficenza organizzato da Bob Gedolf contro la fame in Etiopia) riaffiorano alla memoria collettiva immagini come quella di Birhan Weldu (nelle foto, oggi studentessa ventitreenne in salute e impegnata nella lotta alla povertà del suo paese), il volto della morte, uno dei tanti, ripreso dalla tv canadese nell’84 e trasmesso nel luglio ’85 dalle televisioni di tutto il mondo durante il concerto, svoltosi contemporaneamente a Londra e Philadelphia.
Che sia giusto o meno osannare un volto, un’espressione di tragedia, a “poster” di un evento, l’effettivo svolgersi delle circostanze resta: sullo schermo la fiction sovrasta alcune realtà, tendendo a soffocare l’altra faccia del mondo, la più grande, nell’invisibilità, nell’ignoto. Non mancano oggi tentativi di lotta alla fame nel mondo, ideali di convivenze pacifiche, ma come la stessa Birhan a distanza di anni ci ripete, gli aiuti umanitari non bastano, c’è bisogno di istruzione, di pianificazioni economiche, di crescita dei sistemi politici. Tutto questo attualmente si traduce nel concetto di informazione.
Riecheggiano a proposito tra i nostri pensieri, parole di chi ora non c’è e ha cercato di cambiare qualcosa senza prima fare i conti col tempo. “La televisione così com’è una tremenda forza per il male, potrebbe essere una tremenda forza per il bene”, continua a ripeterci il fantasma di Popper, anche se nessuno sembra dargli corda…forse per una paura sociale dei fantasmi, forse perché nessuno crede più alle cose che non si vedono (e a quelle che si vedono?). Eppure l’assoluto rifiuto non fa altro che alimentare il rafforzarsi di un meccanismo di mera industria dello spettacolo, capace di sfornare finzioni a scapito di preziose verità. Forse basterebbe solo essere più critici e attenti osservatori, per cercare di cambiare le cose.
Capire, criticare, divertirsi, non assuefarsi è benessere
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