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ROTHKO A PALAZZO DELLE ESPOSIZIONI. DA OMERO A ‘MI ILLUMINO D’IMMENSO’
Ha riaperto finalmente il Palazzo delle Esposizioni, a Roma, dopo cinque anni di restauro e riqualificazione dei 10.000 metri quadri di spazio espositivo.

Daniela Mazzoli

Per la serata inaugurale, con la presenza del Sindaco naturalmente a stringere le mani, una a una, dei cittadini entranti, grande movimento di medie star televisive, qualche faccia da gossip e molto profumo sparso sotto le luci, nelle ampie sale: ragazze altissime, uomini vestiti in sartoria ma anche persone meno in vista, meno vistose, curiose magari o appassionate d’arte.

Camminano tutte tra le pareti del primo piano, dove è allestita la mostra delle opere di Rothko. Qualcuno per sbaglio inizia il percorso dall’ultima tela, quella a destra, tutta nera, ci si ferma davanti un secondo e poi viene subito rimesso in pista, e inizia la visita dalla sala giusta, la prima a sinistra.

Pensa di essersi sbagliato, che quello che vede sia un altro pittore, e che la mostra magari contempli la presenza di altri artisti non citati in programma. Invece è sempre lui, Rothko, quello che a trent’anni non faceva una lira, guadagnava cinque dollari al mese e si sentiva rinfacciare dalla moglie che era stufa di doverlo mantenere.

Un Rothko figurativo, tutto color pastello, linee di ispirazione classica: molti i temi mitologici, su tutti quello di Teresia, celebre indovino che –pure cieco, o forse proprio perché cieco- poteva vedere il futuro. Così, secondo Rothko, è la pittura: un’arte in cui la vista vera e propria serve a poco, perché lo sguardo sulle cose è un fatto interiore.

Comunque è così che comincia il ‘pittore’, con quadri che sembrano un poema epico: figure, corpi, donne, bozzetti, uomini alla finestra, tante cose, cento sfumature. E allora come è possibile quella tela nera, alla fine? Come ha fatto ad arrivare a quella conclusione, che è poi il corrispondente di una poesie ermetica, tutto il mondo in una frase o anche in una parola sola?

Perché l’arte è sintesi e sottrazione. Non che significhi privarsi di qualcosa ma mettere tutto il necessario in un colore, una pausa, un punto e a capo. Le tele con cui Rothko diventa amato e famoso, già strapagato in vita –forse anche perché fortuitamente ‘di moda’- sono più difficili da accettare, perché non si possono giudicare in base a concetti ‘classici’ di bellezza, e perché poco hanno a che fare con la bellezza delle forme, delle cose.

Infatti, l’idea di chi ci arriva davanti la prima volta è ‘lo posso fare anch’io’, oppure ‘ok, questo è uno scherzo, adesso fatemi vedere il quadro vero’. Invece quello che l’arte concettuale restituisce è il sentimento primario della cosa, non è l’automobile ma la sensazione della velocità, o dello stare fermi in un parcheggio ad aspettare per ore l’amore della propria vita, e poi magari piove, e altre macchine stanno ferme nel traffico e lui, che ha smesso d’amarci, non verrà.

Davanti alle tele di Rothko non si può passare, ci si dovrebbe fermare intere mezz’ore, perché richiedono tempo, come tutto ciò che vale. Ma anche per un fatto di visione, poiché tecnicamente una cosa è guardare due donne sedute in poltrona e immaginare cosa faranno da lì a poco, altra trovarsi di fronte a una macchia rossa divisa da una linea bianca e ricostruirne l’emozione.

Rothko è un’esperienza, ripensa il tempo, lo dilata, lo popola di assoluti. Grandi applausi, dunque, alla volontà di riaprire lo spazio espositivo più grande al centro di Roma con le opere di un artista che ha trasformato lo spazio in colore. Tra l’altro sono molto efficaci, più delle solite didascalie lapidarie e inutili, le note a margine di ogni sezione-periodo-stanza, redatte evidentemente da qualcuno che sa di cosa ha bisogno chi passeggia per un paio d’ore su un sentiero mai percorso.



(09/10/2007) - SCRIVI ALL'AUTORE


Amare l'arte è benessere

  
  
 
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