Se n’è andato uno dei più grandi registi della storia del cinema e, indiscutibilmente, il più grande tra quelli viventi. Ingmar Bergman, un gigante, una leggenda, uno degli ultimi sopravvissuti tra quegli avi creatori del linguaggio del cinema, allo stesso tempo classico e sperimentale. Un fantasma vivente, ormai, da venticinque anni, tanto che spesso ci si sorprendeva a pensarlo ancora vivo in questo nuovo millennio. L’ultima sua opera cinematografica, infatti, risale al 1982 ed è il capolavoro Fanny e Alexander, vincitore tralaltro degli oscar come miglior film straniero, migliore scenografia e migliori costumi.
Da allora, la sua presenza incombeva nell’anima di qualunque appassionato di cinema, ma come assenza contingente di una filmografia eterna. Nonostante egli ci abbia comunque regalato nel 2003 un notevole film per la televisione, Sarabanda –trasmesso in Italia in tarda serata, meditate gente!- e si sia dedicato a diverse regie teatrali e, appunto, televisive, la sua condizione di esule, rispetto a questa civiltà contemporanea, divenne definitiva dal 1995.
Dopo la morte della moglie Ingrid – l’ultima di cinque consorti- il regista svedese viveva da solo sull’isola di Faaro, una splendida località che egli aveva spesso utilizzato come location per le sue riprese, basti ricordare il sublime Un’estate d’amore del 1951. Nessun regista attuale, parlo di quelli nati dal dopoguerra ad oggi, può reggere il paragone. Sarebbe quantomeno un’insolenza verso chi, come lui, aveva indefessamente assoggetato il cinema all’arte, senza se e senza ma, seguendo un proprio percorso personale che lo portava, film dopo film, a fare i conti con i fantasmi del proprio passato.
Spettri, abbagli, reminiscenze, che Bergman riusciva magistralmente a spersonificare, e a rendere come paradigma collettivo che si è eternato nella sua opera. La capacità attraverso il pretesto della narrazione, di cui era un maestro, di riflettere sublimemente sui temi più alti e più misteriosi dell’esistenza e sul suo perché. Il senso del tempo e della vita, il rapporto con il divino, col dio cattolico soprattutto, e, soprattutto, col suo silenzio in questa terra, e i conseguenti drammi esistenziali. Eppoi il teatro, l’arte come necessità di trascendenza, i rapporti umani tra i sessi, le verità femminili, quelle maschili.
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