D. Come nasce un suo racconto?
R. Non è facile determinarlo. In generale tendo a pensare a situazioni insolite, quasi fossero il seme del racconto. Una volta trovata un’idea che sia peculiare (un uomo che dà ombrellate a un altro, un uomo dominato da una zanzara, una casa invasa dagli scorpioni, dei vicini di casa che competono facendosi reciprocamente regali), scrivo la storia, a tutta velocità, fino alla conclusione. Successivamente la correggo e la riscrivo, e non una volta sola ma diverse.
D. Chi è il suo lettore ideale?
R. Io non penso al lettore con l’intenzione di conquistarne il più possibile, o di ottenere l’approvazione di un certa frangia della critica. Il lettore ideale sono io stesso: quando scrivo faccio in modo di scrivere ciò che a me piacerebbe leggere.
Sono esattamente l’opposto di certi scrittori argentini che si comportano come fossero i servitori dei critici: pavidamente scrivono in modo da ottenere il consenso di tale o talaltro professore universitario che potrebbe glorificarli o condannarli per sempre, mentre a me ispira il più distaccato disprezzo.
D. Lei racconta di uomini che prendono a ombrellate altri uomini, di acide professoresse che ingoiano con piacere ragni di plastica, di persone isolate nella propria casa per anni. Cos’è la “surrealtà”? Perché il surreale è un buon modo per parlare del reale?
R. Il fatto è che a me non interessa “l’arte fotografica”, cioè la smisurata (e assurda e impraticabile) ambizione di riprodurre la realtà. Non mi intendo quasi per nulla di pittura, e non sarei in grado di dire se un certo quadro è stato realizzato bene o male: ciononostante posso dire di essere rimasto affascinato (questa è la parola) davanti ai quadri di Bosch o di Bruegel il Vecchio.
Allora, passando alla letteratura… Non rinnego in termini assoluti il cosiddetto “realismo”, ma rifuggo dal “realismo noioso”. Per esempio, Charles Dickens è un autore realista, ma è un autore realista meraviglioso, perché le sue storie sono colme di peripezie avvincenti, che meritano il mio plauso e la mia ammirazione senza limiti. Però, diciamo, non so…, diciamo Balzac, che è più o meno dello stesso periodo… Durante la mia gioventù (allora ancora leggevo per senso del dovere) ho letto tre o quattro romanzi di Balzac e mi sono mortalmente annoiato, e ciò che è sicuro e che non ricordo nemmeno una parola di quei libri. Perché? Perché in quelle storie non succede nulla che meriti di essere definito “interessante”.
A questo punto della mia vita posso avventurarmi a fare un’affermazione categorica: fra gli autori che conosco, credo che il narratore più grandioso, di sempre e di ogni luogo, sia un signore che si chiamava Franz Kafka! Lui sì che non mi annoia mai.
D. Perchè la letteratura argentina contemporanea tende così facilmente all’astrazione e alla metafora (Borges, Cortazar, lei stesso)? Come mai questa distanza dalla schiettezza e dalla semplicità d’espressione della cultura popolare latina?
R. Le astrazioni e le metafore per essere efficaci devono originarsi, per quanto sembri paradossale, in un’espressione concreta e letterale, in modo che sia il lettore a costruire astrazioni e metafore a partire dalla propria lettura. Direi che la letteratura argentina (in una certa misura, beninteso, non nella sua totalità) tende al fantastico o, perlomeno, all’insolito. Però questo richiede un lavoro molto raffinato e un apporto “realista”: tanto Julio Cortazar, come Manuel Mujica Lainez e Marco Denevi, sono maestri nel creare un contesto “reale” accettabile per il lettore, però le loro narrazioni rifuggono dal mero realismo fotografico: sono molto più ricche, producono risonanze e livelli di lettura infinitamente più elevati.
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