“C'è un uomo che ha l'abitudine di picchiarmi con un ombrello sulla testa. Sono cinque anni proprio oggi dacché ha cominciato a picchiarmi con l'ombrello sulla testa. I primi tempi non riuscivo a sopportarlo, ora mi ci sono abituato”.
Così comincia uno dei più celebri racconti di Fernando Sorrentino, uno dei principali scrittori “hispanohablantes” contemporanei. Che racconta anche di mostruosi padri a forma di pesce, di zanzare dominatrici di uomini, di esistenze condotte senza uscire di casa.
Argentino di Buenos Aires (un “porteño” doc, come dicono con orgoglio gli abitanti della capitale), gaudente e provocatore, amante dei temi e dei toni surreali, quasi fosse inevitabile per chi vive da quelle parti, come lo era stato per Borges. Ed è proprio l’autore dell’“Aleph” che Sorrentino ha potuto conoscere e intervistare in gioventù, pubblicando un libro, le “Sette conversazioni con Borges”, che è stato tradotto anche in italiano (anche se ora risulta difficilmente reperibile).
Ancora poco noto in Italia, dove da tempo la forma del racconto incontra seri ostacoli, Sorrentino in quest’intervista ci racconta due o tre cose di sé e della letteratura, del giocoso Borges e della contraddittoria Argentina…
D. Lei è una persona allegra, come si intuisce dai suoi racconti? Lo è sempre stata?
R. Diciamo che, quando mi trovo con amici o con persone che mi piacciono, sono solitamente molto allegro e ho il dono di un grande senso dell’umorismo. Però, allo stesso tempo, trovo tante persone nel mondo che non mi vanno a genio; se non c’è alternativa a relazionarmi con loro, li sopporto stoicamente, pensando che nessun male dura per sempre. In ogni caso credo di essere una persona piacevole, perché noto di continuo l’affetto con cui mi tratta la gente.
D. Come e perché è diventato scrittore?
R. Credo che sia una specie di “processo naturale”. Fin da quando ero molto piccolo (praticamente da quando ho imparato a leggere) diventai un lettore insaziabile. E, come ogni persona che legge, un bel giorno tentai anche di scrivere. Credo che leggere e scrivere siano due facce della stessa moneta.
D. Dice che scrive poco e preferisce leggere, perché? A che altro si dedica?
R. Nel 1968 diventai professore di spagnolo, letteratura e latino, e questo è rimasto il mio lavoro principale dal 1969 a oggi. Vale a dire che ho vissuto quasi sempre col mio modesto stipendio da professore di liceo. Contemporaneamente ho portato avanti diverse collaborazioni con il mondo editoriale, e continuo a farlo. Inoltre ho pubblicato moltissimi articoli di argomento letterario o linguistico su diverse riviste argentine, spagnole e di altri paesi.
E scrivo poca narrativa per una semplice ragione: dal punto di vista letterario sono – come Borges e fatte salve le astronomiche distanze – un tipo inevitabilmente edonista. Sono già molti anni che ho smesso di leggere per senso del dovere: se comincio un libro e non mi piace o mi annoia o mi stanca lo lascio perdere e non mi importa se tutta la critica del mondo lo celebra come un capolavoro. La stessa cosa mi succede quando scrivo: vado avanti finché il racconto fluisce con facilità, ovvero fintanto che scrivere mi dà piacere; quando il racconto mi prospetta molti ostacoli e non riesco a dargli la forma che sto cercando, mi dico che non ero destinato a questo racconto. Allora lo lascio lì e se non capita qualcosa che mi faccia tornare il piacere, beh, non fa niente: non scrivo nulla e il mondo non si fermerà per questo.
|
|