“Dunque, dove eravamo rimasti?”. Era il 1987, Enzo Tortora riprendeva il suo posto in televisione, dopo quasi quattro anni di assenza trascorsi fra il carcere e gli arresti domiciliari, per l’accusa falsa di associazione a delinquere di stampo camorristico. Nuovamente davanti alle telecamere Tortora era apparso segnato, indebolito. Ma la semplicità e la pacatezza delle sue parole han fermato per un istante la storia della nostra televisione urlata e rissosa. “Dunque… dove eravamo rimasti?”. L’arte di certi uomini di nascondere la fatica e il dolore di anni, di tradurli in un sussurro sereno.
“Buonasera, scusate se sono un po' commosso e, magari, si vede. C'è stato qualche inconveniente tecnico e l'intervallo è durato cinque anni”. Enzo Biagi è del 1920, oggi ha ottantasei anni. La voce trema un po’, l’emozione e l’età si mangiano qualche parola. Sono cinque anni che manca dallo schermo tv, dopo l’editto di Sofia di Berlusconi. Ma erano quarantun anni che il decano dei giornalisti italiani collaborava con la Rai, spiegando con semplicità e nel nome di un giornalismo artigiano e integro quello che pensava dell’Italia. Da qui Biagi ha ripreso.
La sigla, la musica e le parole in sovrimpressione hanno un gusto retrò, come il titolo – “Rotocalco Televisivo” – che rimandano ad altri tempi, altri valori. Poi, secco e diretto, Biagi espone il primo argomento. Si susseguono servizi interessanti, ben realizzati, a volte originali. Insieme a quelli di Report probabilmente i migliori servizi giornalistici su piazza oggi. Anche se il taglio è diverso, più malinconico, quasi sentimentale in certi casi, ma è il giornalismo umano di Biagi e non potrebbe essere diversamente. Ma sono le interviste i veri pilastri della trasmissione. Biagi è diretto, di quella immediatezza quasi infantile che si possono permettere gli anziani e i grandi giornalisti. La semplicità, anche televisiva, di questi momenti è assoluta, anche per questo sembra di assistere a qualcosa di raro.
A Gherardo Colombo Biagi ha voluto chiedere:“Lei crede davvero che la legge sia uguale per tutti, o per qualcuno è un po’ più uguale che per altri?”; a Umberto Veronesi: “Tu credi che in ogni caso la vita merita di essere vissuta?”. Questo è Biagi e, insieme, il suo stesso valore: la capacità e la possibilità di porre domande tanto semplici, che potrebbero in altri contesti essere ritenute banali o ingenue. Biagi domanda ciò che noi vorremmo chiedere con il linguaggio che tutti sappiamo capire. E naturalmente ottiene le risposte vere, che l’ospite di turno, nel rispetto e nell’affetto, gli consegna volentieri.
Non è solo giornalismo quello che il signor Biagi porta avanti a ottantasei anni: è, insieme, speculazione filosofica, riflessione storica, lotta civile. Com’è normale nel giornalismo di più alto livello. All’apertura della prima puntata Biagi ha intervistato Roberto Saviano, lo scrittore ventottenne che in “Gomorra” ha denunciato l’impero della Camorra, consegnando la propria libertà alla vita sotto scorta, alla minaccia costante per sé e per i suoi cari. Biagi gli domanda: “Un grandissimo successo a ventotto anni, in cambio della libertà: ne valeva la pena?”. Una domanda che ha riguardato Saviano, che ha sorriso e risposto sinceramente, e che riguarda profondamente tutti noi, il paese in cui viviamo, le nostre aspettative su noi stessi e sul mondo.
Ed è a gente come Saviano che Biagi ha consegnato idealmente il testimone: ai giovani, agli idealisti, agli impegnati che sono disposti a rischiare del proprio. Ma prima che smetta godiamoci i suoi irriverenti ottantasei anni. Viviamo in un paese che ha rischiato di ostracizzare un ottimo giornalista, anche se ne vanta molto pochi. Ora abbiamo la fortuna di vederlo nuovamente, ed è anche la sua presenza fisica a diventare oggi testimonianza, oltre alle sue parole.
Come andare a trovare, una volta alla settimana, un anziano e saggio parente, che ascoltiamo in ammirato silenzio. Grazie signor Biagi, a lunedì prossimo.
Capire, criticare, divertirsi, non assuefarsi è benessere
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