Recensione di Serena De Santis
Voto: 7
DDR, Berlino Est, 1984. Il ministro della cultura Bruno Hempf si invaghisce della compagna del drammaturgo Georg Dreyman, l’attrice Christa-Maria Sieland. Intenzionato ad averla tutta per se, incarica la Stasi, la potente polizia di stato tedesca, di sorvegliare l’uomo, facendo mettere sotto controllo l’appartamento dove i due vivono. Vorrebbe infatti trovare prove a carico dell’artista per incastrarlo e avere così campo libero con l’attrice. Il caso è affidato all’efficiente ed inflessibile agente Gerd Wiesler, il quale subisce però una profonda metamorfosi. Entrerà nella loro vita, intercettando e controllando ogni istante. Tuttavia la sensibilità dello scrittore, la corruzione che aleggia tra le cariche politiche, la sua condizione di solitudine lo faranno pensare e lo trasformeranno in un inaspettato angelo custode.
Lo spaccato di vita in una Berlino Est attraversata da un’aria pesante ed opprimente, che l’esordiente regista Florian Henckel von Donnersmark ci racconta egregiamente, travolge e lascia il segno. I 137 minuti di narrazione si seguono senza cedimenti, non ci sono momenti banali o scontati. La storia è quella della Stasi, il ministero per la Sicurezza di Stato (Ministerium für Staatssicherheit) della DDR, l’ex Repubblica Democratica Tedesca, raccontata attraverso gli occhi e il cuore dell’agente Wiesler, il bravissimo Ulrich Muhe. Era la principale organizzazione di sicurezza e spionaggio, che si avvaleva sostanzialmente di una fitta rete di impensabili cittadini votati a spie.
Come si vede nelle scene iniziali, gli interrogatori erano delle vere e proprie torture psicologiche. Presumibilmente dal film (ma chissà se poi fosse veramente così?) non venivano inflitte percosse, ma si interrogava il malcapitato fino allo sfinimento, fino alle minacce. Ottenuta la verità, l’interrogato poteva divenire una spia che collaborava o un fantasma senza più possibilità di inserimento nella società. Si viveva in una gabbia senza via d’uscita. Bastava un semplice sospetto o un’antipatia di troppo perché la vita fosse trasformata in un inferno. Ed era sufficiente un motivo banalissimo per far fuori chiunque non piacesse.
Essendo il teatro una forma d’Arte, quindi mezzo di espressione e comunicazione molto forte ed influente, subiva un controllo molto importante, che vincolava totalmente i lavori teatrali, col fine di esaltare il regime. Né Le vite degli altri sebbene Dreyman fosse linientreu, cioè fedele alla linea per convinzione e non per opportunismo, rischia di venir fatto fuori. Lui appare ignaro di ciò che lo circonda, si stupisce persino quando un suo amico drammaturgo per comunicare in casa alza la musica a tutto volume e scrive messaggi su fogli, che vengono immediatamente dopo bruciati.
Molto ben girato, scorrevole e carico di particolari significativi (vedi l’estratto di giornale dove si legge che Gorbačëv è stato eletto), questo film ha a mio avviso una sola pecca. Il seppur significante ed emozionante cambiamento dell’agente Wiesler è poco sofferto. Mancano scene cariche di dubbi, di scompensi e paure. Lo stesso agente che inizialmente minaccia freddamente, quasi ricorda un soldato nazista, la vicina di Dreyman, sorpresa a spiare mentre la casa viene riempita di microfoni, è lo stesso che poche scene dopo decide di rischiare la sua carriera per ‘proteggere’ i due amanti. Da integerrimo sostenitore dello Stato diviene repentinamente impensabile oppositore…senza vacillamenti, né ripensamenti.
A mio avviso il personaggio dal quale veramente trasuda ogni emozione è l’attrice Christa-Maria Sieland, ovvero Martina Gedeck de ‘Le particelle elementari’. E’ un personaggio imprevedibile, carico di dissidio interiore, indecisione, confusione. Ama, ma non vuole perdere il suo ruolo di attrice. Vuole rimanere fedele al suo uomo, ma deve piegarsi per non perdere ogni privilegio. Senso di giustizia ed egoismo caratterizzano questa fragile figura davvero umana.
Sono passati solamente 18 anni dal crollo del muro di Berlino e dalla fine del regime comunista in Germania e forse ci sembra un’eternità. Questo film, insignito dal premio Oscar come miglior film in lingua straniera, ha il pregio di farci ripensare a ciò che significa vivere sotto controllo e subire continue censure politiche. Ci lascia molta rabbia, forse anche per il fatto che viviamo un’epoca dove ci fanno credere di essere liberi, ma di censure e controlli ce ne sono fin troppi.
Da vedere.
Amare l'arte è benessere
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