Due recensioni
Recensione di Lorenzo Corvino.
Voto: 7
Berlino 1984. O meglio, Berlino Est a soli 5 anni dalla caduta del Muro. Il Capitano della Stasi, la polizia segreta della DDR, Gerd Wiesler insegna all’università come spiare, interrogare, vessare e far crollare coloro che si suppone cospirino contro lo Stato. Un giorno si trova a dover mettere sotto controllo un prestigioso drammaturgo teatrale: diventa così il segreto conoscitore dell’intimità di una coppia, il drammaturgo e la sua compagna, delle loro ansie e dei loro problemi, fino a quando altre vite e altri interessi giungono a turbare la glaciale sicurezza del Capitano della Stasi.
Nel cuore di una nazione spaccata, una città, Berlino, a sua volta divisa da un muro che oggi ci sembra quanto mai espediente assurdo per tenere lontane persone e ideologie, è teatro di una storia semplice e irrimediabilmente drammatica. Ci sembra di stare di fronte a quelle storie che ci appaiono come se fossero sempre esistite, in parte già viste, in parte classiche come Romeo e Giulietta, archetipiche come quelle emozioni che siamo in grado di provare prima ancora di saperle qualificare con un nome.
La storia di questo Capitano della Stasi, introverso e ciecamente fiducioso nel Sistema e nei valori che lo Stato in cui è stato educato e cresciuto gli ha imposto, coinvolge e fa riflettere, perché, se c’è una storia al cinema in grado di catturare l’interesse dello spettatore, anche di quello più smaliziato, è proprio la narrazione di un percorso umano di redenzione o di parziale riscatto: lo spettatore non anela altro che sapere come farà questo antieroe a sopravvivere a se stesso, alla sua coscienza, o se ci sarà mai in lui la rivelazione dell’errore in cui è caduto. Dall’Innominato de I promessi Sposi all’Oskar Schindler del celebre film di Spielberg, passando per il Robert De Niro di Mission, l’antieroe, malvagio o cinico che sia, che impara sulla propria pelle a martirizzare le proprie colpe verso un riscatto che può salvare un popolo o una parte di essa, godrà sempre del fascino di una suspense tesa e ricca di sfaccettature, senza dimenticare finanche la commozione che può suscitare negli animi più coinvolti dal racconto.
Per questo il film dell’esordiente Florian Henckel von Donnersmarck è in grado di raccontare tanto un dramma universale e astorico, quanto di integrare il contingente caso di un pugno di esseri umani, tra i tanti delle Storia contemporanea, con le atmosfere del thriller politico, tra cospirazioni e inni alla fuga, bisogni di rivalsa e rigurgiti di dispotismo senza eroi né ideologie. Sì, perché la Repubblica Democratica Tedesca, la DDR, qui stigmatizzata da un manipolo di corrotti uomini di partito privi di un qualsiasi appiglio al proprio onore e alla propria dignità, ha, sì, è vero, lo spessore grossolano del Male enunciato in modo fin troppo manicheo, ma anche l’impenitente stoltezza di chi veramente era in ritardo coi tempi, e credeva che la propria condotta sarebbe rimasta impunita per sempre.
La Germania con questo film si aggiudica l’oscar al miglior film straniero tre anni dopo averlo mancato con un film che neppure entrò nella cinquina finalista, Good Bye Lenin! Quest’ultimo potrebbe essere il perfetto complementare de Le vite degli altri, due storie che recuperano il rimosso di un paese che per tanti anni è stato diviso nel cuore di un’Europa che oggi vuole tenere lontano gli spettri dei celebri conflitti del XX secolo e che con una moneta unica sembra ulteriormente sia ratificare un’economia che si vorrebbe più omogenea, sia trovare un’identità politica nel rispetto delle diversità culturali.
La Germania affronta il suo passato recente con solerte severità critica...Quando toccherà all’Italia affrontare di petto la propria storia repubblicana recente, senza dover ricorrere a storie generazionali che fin troppe volte sfociano, per comodità o ignavia, nella commedia priva di sincere ammissioni di responsabilità?
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