La rabbia è la vera protagonista. La rabbia di tutti gli argentini. Di quelli che nel 2001 si sono trovati il conto congelato in banca, inaccessibile. Di quelli che sono scesi in strada a sbattere pentole contro pentole, per tradurre in suono la frustrazione. Di quelli che all’improvviso erano diventati poveri. La rabbia contro il governo, le bustarelle, e il Fondo Monetario Internazionale, che aveva affossato l’Argentina, suo allievo prediletto. La rabbia contro se stessi, per avere scelto di non capire quando tutto era diventato chiaro. E cioè che la ricca e raffinata Argentina non c’era già più, sequestrata dal Fmi e da un governo inetto e corrotto, mentre gli argentini passeggiavano leggeri tra i luccicori residui delle vetrine.
La stessa rabbia di Manuel Ferreira, attore di Buenos Aires, trapiantato a Milano. A ogni viaggio compiuto nel suo paese negli anni novanta vedeva la sua gente scivolare in bocca alla crisi. Ceto medio, gente come lui e come noi, che perdeva il lavoro, la macchina, l’assistenza sanitaria, talvolta la dignità. Fino al 2001, l’anno del collasso, che si può descrivere con i diagrammi oscuri della teoria economica, o attraverso le storie e le espressioni di individui stupiti, scesi per strada per recarsi nei nuovi luoghi del baratto o, finalmente, per urlare la loro protesta.
C’è la donna in pelliccia che sbraita la sua dignità ferita contro un bancario che le spiega che c’è “l’emergenza nazionale” e che non può più prelevare un peso. Ci sono i “cartoneros”, nuovi reietti del paesaggio urbano di Buenos Aires, che frugano l’immondizia per setacciarne materiali da rivendere. Fanno paura i cartoneros, perché sono malconci e sporchi e perché rappresentano un presagio inaccettabile: loro erano come noialtri, poco tempo fa. E ci sono gli amici sorridenti e disperati di Manuel, che hanno perso il lavoro e in cuor loro sanno che incombe qualcosa. Meglio non vederlo.
Manuel racconta strade e personaggi con genuina partecipazione. Salta da un lato all’altro del palco, spesso in precario equilibrio, modulando la voce, cambiando maschera dopo maschera in pochi istanti. Oltre un’ora di monologo, teatro vero in cui c’è tutto: voce, corpo, testo, musica, persino inattese soluzioni scenografiche.
Un apparato semplice ma sorprendente, al servizio della riflessione dell’interprete e nostra. Che cerchiamo di capire cosa voglia dire diventare improvvisamente poveri. E perché di colpo tanta gente di uno dei paesi più interessanti e piacevoli del mondo voglia espatriare, e un passaporto europeo diventi come “il primo premio alla lotteria”. Proviamo a immedesimarci, dovremmo farlo, perché come ammonisce Manuel, un tempo anche in Argentina si diceva semplicemente “spendete, spendete, fa bene all’economia, ne gioveremo tutti” e c’erano tanti centri commerciali e tutto andava bene.
Sono loro e siamo noi il ceto medio, termine che non vuole dire niente perché non definisce quasi nulla, e quel poco scompare senza che ce ne accorgiamo. E’ una di quelle parolacce dell’economia, come privatizzazione, liberalizzazione, o debito pubblico, che volano sopra le nostre teste, ma che, caso vuole, occupano le pagine centrali di tutti i quotidiani, ogni giorno. C’è la difficoltà di capire un sistema che probabilmente non lo vuole, ma c’è anche l’indolenza. E quest’ultima non va perdonata, perché non possiamo permettercela. Come hanno capito, troppo tardi, gli argentini, presi in giro dalla loro classe politica e dagli organismi finanziari internazionali. Ora che conoscono la povertà vera e sono impegnati in una dura risalita. E come sanno bene quelli di Alma Rosè che da quattro anni portano nelle nostre città questo documento: lamento e grido di riscossa insieme.
Prossime repliche:
28 marzo, ore 21:30, La Scighera, Milano
15 aprile, ore 18:30, Rassegna teatrale, Trinitapoli (Fg)
22 aprile, ore 18, Casa privata di Fernanda Tucci, Milano
14 maggio, ore 21, Teatro De Andrè, Casalgrande (Re)
17 giugno, ore 21, Scuola teatro Quelli di Grock, Milano
Amare l'arte è benessere
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