Un’attrice, Nikky Grace, viene scelta dal regista Kinsley Stewart per interpretare la storia di una moglie il cui matrimonio entra in crisi per colpa di un incallito rubacuori. La situazione sembra ripetersi nella vita reale. Infatti, l’attore Devon Berk, scelto come partner professionale per Nikky, comincia ad essere fatalmente attratto da quest’ultima, anche se viene messo in allerta dal marito dell’attrice che, a sua volta, sembra essere legato in qualche modo ad un omicidio riguardante una precedente lavorazione inconclusa del film in questione…
Uno spettro si aggira nella filmografia di David Lynch: è quello del cinema, con tutti gli annessi ed i connessi. In quest’ultimo, criptico lavoro del regista statunitense la riflessione su questo ectoplasma si spinge fino al parossismo di una polidimensionalità metacinematografica.
Il punto di partenza è la lavorazione di un film nel contesto hollywoodiano: un’attrice riesce ad ottenere la parte che desiderava ed entra così nel cast dei protagonisti de “Il buio cielo del domani”, opera che in precedenza non era stato possibile terminare per la morte dei due attori principali. La sua vita privata comincia ad intrecciarsi con quella professionale in una indefinitezza che confonde i due livelli e che forma il basilare limbo per una sovrapposizione dimensionale.
Tutto il materiale umano che precede la lavorazione del film è già parte del film stesso, come fonte prodromica di un eterno fluire vitale; allo stesso modo le conseguenze del film sono già inesorabilmente avviluppate al tempo filmico del set, che a sua volta sembra essere difficilmente districabile da quello della sua diegesi.
Volendo attenersi ad una mera comprensione narrativa, questo film –come il precedente Mulholland Drive- ha una prima parte dove lo svolgimento dei fatti prosegue in maniera lineare ed ogni inquadratura, pur emanando quell’atmosfera di elegante mistero specifica del cinema di Lynch, contribuisce a creare quella catena causale di azioni e reazioni.
Ma lo svolgimento della seconda parte, o meglio di quella chiave di rottura semantica che in Mulholland Drive era rappresentata dalla scatola blu, in questo film arriva molto prima, cronometricamente parlando, che nella meravigliosa pellicola sopra citata e, da lì in poi, INLAND EMPIRE è un inquietante delirio su tutto quello che sfugge alla limitatezza spazio-temporale umana.
Ed anche alla limitata capacità di giudizio critico costretta a valutare in termini strutturali un film come questo, senza aver la chiave di accesso all’analisi logica dei procedimenti lynchani di costruzione filmica. Chissà che Lynch la abbia, eppure la sua indiscussa maestria nell’accompagnare emotivamente lo spettatore con visioni suggestive ed ipnotizzanti rende marginali i problemi della sensatezza dell’intreccio drammaturgico.
C’è, certamente, la consapevolezza di essere al limite dell’autoreferenzialità e del nonsenso razionale, ma questo né si può stabilire ad una prima visione, né può essere l’assoluta, inopinabile, discriminante per giudicare un film che è pura fascinazione visiva.
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