Chris Gardner è un giovane padre di famiglia che vive e lavora nella città di San Francisco. Siamo agli inizi degli anni Ottanta, in piena era reganiana, la crisi economica si fa sentire e l’intraprendenza del singolo sembra essere l’unica soluzione per invertire la tendenza alla disfatta di cui pare essere portatrice sana la metropoli dei grattacieli e delle grandi corporations.
Pertanto Chris ha deciso di investire tutto in un prodotto della tecnologia, uno scanner medico, venderne uno al mese significa per lui riuscire a mantenere suo figlio di 5 anni e sua moglie insoddisfatta e sfiduciata, al limite dell’indifferenza. Il presentimento che tutto si tenga entro il labile margine di un equilibrio precario c’è e quando arriva la serialità di imprevisti e piccole sfortune si arpiona alle gambe sempre in corsa e in tensione dell’atletico Chris (per forza lo deve essere, non potrebbe fare altrimenti).
Lo spettro della crisi di inizio millennio, quella della Enron, per intenderci, quella delle tante imprese della New Economy, che per tutti gli anni Novanta hanno giocato col denaro degli investitori, è solo uno spettro sullo sfondo che si aggira tra l’estremo lusso ostentato da Yuppies in Ferrari e le decappottabili con belle pupe bionde a bordo.
In parte lo stesso Chris ne è uno degli involontari ingranaggi: egli crede in un’invenzione tecnologica tanto da investirne i suoi risparmi, ma non sempre ciò che promette bene, ciò che è tecnologicamente proiettato nel futuro apre le porte della Felicità. Non è un caso che Chris dovrà conquistarsela attraverso il più tradizionale dei lavori, quello fisico: egli correrà su e giù per San Francisco, inseguendo e facendosi inseguire, correndo per non mancare ad appuntamenti inderogabili e facendo lavori manuali, come imbiancare l’appartamento in cui vive, per pagarsi l’affitto di una settimana in più in un motel come tanti.
Raramente il cinema statunitense riesce a raccontare la miserie e la dipendenza da pochi spiccioli e da pochi strumenti fondamentali per lo stretto necessario; ebbene questo film ha soprattutto questo di immediatamente positivo, farsi carico di un merito sociale qual è un apologo sulla povertà: e se qualcuno obiettasse che non è così difficile raccontare la povertà quando questa è catapultata nel passato, in un’era lontana anni luce ed ormai superata, si potrebbe replicare con due argomentazioni.
La prima è cinematografica: appena un anno fa usciva nella sale un altro bio-pic tipicamente statunitense, altrettanto classico e nei modi dell’esposizione e nella prevedibilità dei valori ottemperati, un film sui temi, appunto, della miseria e della riscossa in linea col mito del Sogno Americano di riscatto personale; questo film è Cinderella Man, su un pugile realmente vissuto capace di risorgere negli anni della Grande Depressione degli anni Trenta.
Eppure questo film diretto da Ron Howard con Russell Crowe non riesce a coinvolgere né a convincere: nonostante il racconto della povertà di un’epoca oramai lontana e il relativo messaggio riconciliante di cui si fa portatore, il film ha forti lacune di verosimiglianza.
La seconda argomentazione è squisitamente culturale: la povertà è sempre un temibile spaventapasseri da rappresentare, perché non consta di un singolo e sparuto fatto orrendo che passa in fretta, ma è l’agonia della dignità colta nel suo lento spegnersi suo malgrado. Ciò vuol dire che quando la si vuole veramente scrutare, questa sarà come una malattia: nonostante possano essere differenti le epoche in cui si manifesta i sintomi saranno sempre gli stessi.
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