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APOCALYPTO. DUE RECENSIONI A CONFRONTO
TITOLO ORIGINALE: Apocalypto
REGIA: Mel Gibson
CON: Rudy Youngblood, Dalia Hernandez, Jonathan Brewer, Morris Birdyellowhead, Carlos Emilio Baez, Israel Contreras
USA 2006
DURATA: 139 minuti
GENERE: azione
VOTO: 6 e 8,5
DATA DI USCITA: 5 Gennaio 2006

Giancarlo Simone Destrero e Pietro Baroni

Recensione di GIANCARLO SIMONE DESTRIERO - VOTO: 6

Yucatan 1518. Zampa di Giaguaro, un giovane maya di una tribù che risiede in un villaggio nella giungla viene fatto prigioniero, insieme ad altri sopravvissuti, e portato verso la zona templare da una tribù rivale che li ha assaliti improvvisamente.

Scampato fortunatamente al sacrificio rituale, riesce a scappare, seppur ferito, e ad addentrarsi nella giungla per tornare in un pozzo vicino al suo villaggio, dove ha nascosto dal massacro la moglie incinta col figlioletto. Intanto, gli uomini che lo avevano imprigionato lo inseguono dandogli la caccia.

Dov’è la grande civiltà che andò scomparendo in concomitanza dell’arrivo dei conquistadores spagnoli? Non ve n’è traccia nel kolossal di Mel Gibson. La grande attrattiva filmica della contestualizzazione precolombiana e del fascino che questa epoca umana evoca è in realtà una giustificazione, più o meno subliminale, alla colonizzazione europea.

Voglio dire che dal punto di vista dell’ambientazione storica, pur colmando un gap nella filmografia hollywoodiana andandosi ad occupare del grande impero Maya, il film riduce questo mondo ad un’orda di uomini preistorici, dove la violenza e la bestialità più selvaggia sono le peculiarità che governano questa società.

Si forza troppo la mano su tutto il corollario pagano - nell’accezione negativa che gli dà il bigottismo cattolico - e sul luogo comune che la grande civiltà, umanamente intesa come progresso sociale e di benessere, sia attribuibile solamente ad un certa evoluzione occidentale moderna.

Quindi nessuna traccia di grande civiltà compare nell’opera di Gibson, dove non si profonde nessun atteggiamento di rispetto verso un popolo che aveva approfondite conoscenze astronomiche ed un profondissimo senso del sacro.

La massa precolombiana nel suo insieme di individui è rappresentata come un carnaio, un’orgia di corpi destinati allo strazio, un gruppo di uomini – i quali sembrano scesi da poco dagli alberi - che ancora vivono nella giungla e che di tanto in tanto, tra capanne e costruzioni semplici come palafitte, erigono templi piramidali per offrire il sangue degli uomini agli dei.

Una visione d’insieme che è praticamente un inferno, dove la presunta verità divina – raccontata nel precedente film di Gibson - non è ancora giunta. Un caos virulento che necessita di essere ordinato e che serve a giustificare, anzi rende quasi auspicabile, l’arrivo delle navi europee con il simbolo della redenzione sulle vele.

Uno scenario ricco di peccatori da redimere, necessari per la militanza cristiana. Questa, alla fine, sembra essere la considerazione di Gibson su una società che, seppur indubbiamente interessante, rimane comunque ignara del messaggio di Cristo e ne paga le conseguenze; un discorso in linea con il suo oltranzismo monoteistico.




  
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