Non sono una fan, non ho tutti i suoi cd, non conosco a memoria i testi delle sue canzoni. Io sono per Vasco, che è tutta un’altra storia.
Però al concerto di Ligabue (ultima data su Roma prevista per domenica 17 gennaio), in questo coraggioso ed efficacissimo tour teatrale che l’artista sta ‘correndo’ da mesi, c’è un elemento stupefacente. Ligabue ha un pubblico felice.
Non sono solo innamorati del loro cantante, sono persone contente. Si provava emozione non solo ascoltando il palco; si capiva Ligabue soprattutto guardandosi intorno. Non erano i soliti fans. C’erano facce di ragazze comuni, coi capelli legati e gli occhiali che diventavano belle davvero alle luce gialle dei riflettori; bionde col telefonino alzato, che chissà a chi lo stavano facendo sentire quel famoso giro di note. C’erano ragazzi di neanche vent’anni che ballavano come satiri in mano a Dioniso, col le teste folte di sogni, coi sorrisi spogli di qualunque rimpianto.
Le parole -loro sì- le conoscevano bene a memoria, perchè le cantano in motorino ogni mattina, le sentono in macchina con la ragazza del cuore, le piangono sotto le lenzuola ogni volta che ritorna il disastro dell’amore.
E poi c’erano tante signore, che appena un’ora prima erano uscite dai supermercati coi carrelli pieni di spesa, e adesso stavano tutte in fila, accanto a figli e mariti a intonare che ‘le donne lo sanno, l’han sempre saputo che il cielo è leggero però non è vuoto’ ; dopo un’ora e mezza di composta seduta teatrale, su questa canzone e senza più tornare indietro, si sono alzate in piedi, seguite dal resto del coro. E a quel punto il concerto è cominciato.
E’ stato bravo Luciano, accogliente, ironico, persino incantato. Ha letto le sue poesie, tutte almeno con una frase da ricordare, e poi con quella voce calda, intensa, decisa, virile, ha tenuto due ore di spettacolo senza nemmeno un graffio, un cedimento, un inciampo. Livello musicale altissimo, anche con qualche virtuosismo per strappare l’ovazione a un pubblico già molto partecipe.
Ma a sentirlo così da vicino, non sembrava per niente il rockettaro maledetto, tenebroso e perso che i suoi discografici o l’immagine promozionale vorrebbero imporre. Sembra un uomo gioviale, ragionevole, persino ottimista. Il padre che tutti vorremmo avere se fossimo piccoli, l’amore che nemmeno ci sogniamo di avere quando siamo già abbastanza grandi, l’amico che poi va sempre a finire in un altro modo perché ormai è proprio ora di crescere e andare avanti.
A me ha ricordato certi ragazzi che facevano parte del coro parrocchiale, di quelli più carini però, che venivano in chiesa perché c’erano le ragazze e poi si rimaneva sempre insieme anche dopo: ci si metteva a cantare altre cose, usavano la chitarra acustica – chi suonava la dodici corde aveva una marcia in più - e poi componevano strofe loro, ritornelli, sempre in cerca di rime.
Avevano tutti belle voci, si davano una mano nel controcanto, cambiavano una donna l’anno. Non erano mica pericolosi, però certe volte avevano uno sguardo strano, da cowboy di periferia, da duri che non erano mai nemmeno usciti dal quartiere però avrebbero potuto proteggerti dalla volgarità del reale.
Ecco, Ligabue mi ha fatto venire in mente quel clima, quel modo di amare le canzoni, di stare insieme proprio per il gusto di sentirsi battere il cuore. Una cosa d’altri tempi, insomma, o forse no. Magari c’è ancora un sacco di brava gente, poco esibizionista e che non finisce sui giornali, capace di restare giovane dentro, giovane sempre. Che si ripete davanti allo specchio, la mattina in bagno, ‘come ci frega l’amore, dà degli appuntamenti, e poi viene quando gli pare’… Ma a quegli appuntamenti non riescono a mancare.
Conoscere la forza della musica è benessere
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