Pochi narratori del Novecento hanno esercitato durante la loro vita una influenza stilistica pari a quella di Ernest Hemingway.
I tratti caratteristici della sua scrittura secca e chiara, senza sbavature, in cui il dialogo era spesso il mezzo principale per rivelare i personaggi più delle loro stesse azioni, e che miravano a “rendere viva la sensazione della vita”, a “far udire, far sentire, far vedere” la realtà, furono imitati in tutto il mondo, anche al di là dei confini linguistici dell’inglese.
Basti pensare all’influenza che ebbe lo stile di Hemingway sulle prime prove letterarie di due autori nati negli anni venti, destinati, ognuno a suo modo, a liberarsi durante il corso delle loro opere della “maniera” hemingwayana inizialmente appresa: Gabriel Garcia Marquez e Italo Calvino.
Tra le opere di Hemingway un posto di primo piano lo occupa la raccolta di storie I quarantanove racconti, la cui edizione più recente in italiano è quella uscita nei classici Mondadori con la traduzione di Vincenzo Mantovani.
Nei Quarantanove racconti, raccolti e ordinati dallo stesso Hemingway nel 1938, lo scrittore americano tocca il culmine della sua arte narrativa. Infatti nei racconti Hemingway si esprime più efficacemente che nei romanzi, perché la misura breve è narrativamente più congeniale al severo dominio tecnico che lui impone al suo linguaggio semplice ed essenziale, alla sua prosa che, in una celebre intervista, lo stesso Hemingway affermò fondata “sul principio dell’iceberg” : “Cerco sempre di scrivere sul principio dell’iceberg. Ci sono sette ottavi di iceberg sott’acqua per ogni parte visibile. Tutto quello che si sa lo si può eliminare e questo non fa che rinforzare l’iceberg. È la parte che non si vede”.
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