Immagini che sono sì funzionali allo sviluppo dell’azione e che servono ad introdurre il repentino momento di crisi del racconto, ma che hanno un intrinseco valore allusivo d’alterità cinematografica, rispetto a quelle che sono le mere regole della narrazione. Eppoi la storia: la coppia americana in crisi in viaggio nel Marocco, la badante messicana ed il suo difficile pendolarismo tra il Messico e gli Stati Uniti, la povertà dei due pastorelli marocchini, la ragazza giapponese sordomuta ed i suoi problemi esistenziali dopo la morte della madre.
E qui c’è l’Inarritu più politico. Quello che critica, senza mai indugiare troppo da una parte a scapito dell’altra, la ferrea burocrazia degli Stati Uniti nei confronti delle brave persone messicane, la rigida e ottusa testardaggine delle forze dell’ordine di qualunque paese, le aberrazioni giovanili dell’occidentalizzazione giapponese. L’oggetto che mette in contatto queste diverse esistenze è un fucile che, tramite una staffetta, arriva dalle mani del padre della ragazza giapponese fino, tramite i suoi proiettili, al corpo della turista americana.
E qui il contrappunto culturale del suddetto legame strutturale degli uomini, sembra essere una globalizzazione violenta generata dalle armi e dal cinismo spietato dei media. Quest’ultimi, infatti, allargano il mondo in un grande paese virtuale dove le informazioni arrivano subito, ma la sostanza di esse viene completamente ignorata a beneficio di una rincorsa alla notizia fine a se stessa.
Straordinaria, infine, la capacità di mantenere costantemente in primo piano la solitudine dell’individuo e la sua alienazione, passando disinvoltamente da contesti naturalistici e rurali a contesti iperurbanizzati e caotici.
Amare l'arte è benessere
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