La famiglia Hoover, alquanto bizzarra, modesta ma simpatica, ricca di piccoli drammi semiseri, è compensata dalla vita con…drammi ancora più seri: il nono eroinomane, il fratello della moglie aspirante suicida e il figlio maschio nel pieno delle sue crisi adolescenziali ha scelto di odiare tutti e di esprimere questa repulsione verso l’umanità con un silenzio nichilista. Infine, il padre di famiglia, un vanaglorioso testardo che pontifica sul concetto tipicamente statunitense di natura vincente dell’essere umano senza essere mai stato un vincente.
Non che dica cose errate, ma l’esagerazione stanca e l’eccesso di sicurezza in se stessi porta sfortuna. In tutta questa baraonda di personalità si eleva la ancora prematura Olive, sette anni, aspirante reginetta di bellezza, curiosa del mondo e ancora non contaminata dallo spirito grottesco dei parenti. Insieme decidono di tentare la sorte, come se in realtà fosse il viaggio della speranza per tutti, e di puntare dritto in California per far partecipare la piccola Olive ad un concorso di bellezza a cui lei tiene molto.
La coppia di registi è esordiente al cinema, ma con una lunga carriera di registi in TV alle spalle – lui e lei vanno per i cinquanta ormai – per un film costato appena 8 milioni di dollari e che da 7 schermi a casa sua negli USA è passato a oltre 1500. Un piccolo film indipendente che ad oggi ha incassato sette volte quanto è costato, e che punta ad incrementare ora la sua fama presso i mercati stranieri, garantendosi duratura promozione fatta di passaparola e di probabili future candidature a premi come i Golden Globes nella sezione per commedie e ai prossimi Oscar per lo meno nella categoria della miglior sceneggiatura.
Poiché se la regia è rimarchevole per la snellezza dei passaggi anche nei momenti più comici, e pertanto più improbabili – vedere la fuga dall’ospedale e le bizze del pulmino Wolkswagen –, la vera magia, di fatto, sta nell’atmosfera scanzonata e nelle cose che hanno da dirsi e rinfacciarsi l’un l’altro i componenti della famiglia Hoover: ognuno è ben caratterizzato, esasperato nel suo bozzettismo da sfigati e sfortunati, da perdenti che sembrano lottare accanitamente…per esserlo fino in fondo.
La trama è pretestuosa – ne abbiamo viste di famiglie americane sgangherate, basti pensare ai celebri Griswold di National Lampoon’s Vacation del 1983 –; Little Miss Sunshine è un on the road deciso e risolto nel volgere di pochi istanti ad inizio pellicola, mentre sono a tavola tutti insieme, alla prima occasione che hanno di riunire le loro forze e lasciarsi contagiare reciprocamente dalle proprie più impensabili idiozie.
Il messaggio del film è semplice e nonostante questo per nulla scontato, dal momento che ridiamo ma il tutto è avvolto da una chiara amara realtà: in America non c’è posto per i perdenti, o meglio – che forse è ancora più indigesto – a chi non ce la fa non è permesso neppure avere un lieto fine, ossia una conclusione alle proprie disgrazie. Insomma, la critica più feroce è questa: è più facile sbrigarsi a concludere un film (leggi: a sbarazzarsi dei perdenti) che racconta vite poco confortanti, prima ancora che queste abbiano avuto una risposta alle loro pene, piuttosto che rischiare di venire a sapere quanto può essere amara la vita e quanto poco può risultare allietata da naturali gioie, di quelle senza eccessive pretese.
Amare l'arte è benessere
|
|