Campo X-Ray, Guantanamo. Le torture, fisiche e mentali, per indurre alla confessione. Tutta l’aggressività americana in un tema scottante ma, ormai, noto. Asif, Ruhel, Shafiq e Monir partono da Tipton, in Gran Bretagna, perché la madre di uno di loro gli aveva trovato una sposa pakistana. I quattro amici, tutti di nazionalità araba, sono ventenni come tanti. Il viaggio parte senza troppi sobbalzi, un viaggio attraverso il Medio Oriente, con tutte le carenze dovute alla povertà dei luoghi. Siamo nell’ottobre 2001 quando il viaggio-documentario ha inizio.
I quattro, nel pullman diretto in Pakistan, attraverso l’Afghanistan, si ritrovano sotto i bombardamenti degli Usa per disarmare l’ormai celebre Bin Laden. Raccontano, i quattro, che non venivano mai bombardati i centri delle città ma i dintorni; in uno di questi scontri, Monir resta ucciso. Da qui, l’odissea che condurrà fino alla prigione di Guantanamo. Trattati come militanti di Al-Quaeda, Asif, Ruhel e Shafiq si ritrovano a subire le angherie e i sopprusi dei soldati americani: incappucciati con sacchi di corda, stipati in camion senza aria, legati mani e piedi, impossibilitati a guardare in faccia i soldati e negato loro il cibo per settimane, vengono stipati insieme ad altri prigionieri in celle di nulla grandezza rispetto al numero di catturati.
Allo scorrere agghiacciante delle immagini si alterna la testimonianza dei tre sopravvissuti. In questi campi, vengono costretti a dormire a terra, svegliati ogni ora dai militari che li facevano correre sul fondo del campo e controllavano sotto le poche coperte date ai prigionieri per scaldarsi se nascondessero armi o altro, gettando le coperte nella porzione di terra dove i prigionieri urinavano o defecavano. Ogni volta che qualcuno veniva condotto all’interrogatorio, gli altri prigionieri dovevano ammassarsi sul fondo opposto del campo e il “prescelto” doveva stendersi a terra con le mani sulla testa, veniva poi incappucciato e ammanettato da cinque o più soldati e trascinato in una tenda dove un ufficiale americano o inglese lo incalzava di domande ed insinuazioni, per farlo confessare. Mentre lì, igiene e sopravvivenza erano ai limiti del sopportabile, Gorge W. Bush dagli Usa assicurava che i prigionieri erano tenuti in condizioni umane e che non bisognava dimenticare che erano terroristi.
Dopo un periodo lungo di detenzione in questo campo, durante il quale i tre furono sottoposti ad interrogatori e violenze affinché ammettessero di essere terroristi, Asif, Ruhel e Shafiq vengono trasferiti nella prigione X-Ray di Guantanamo. Prigione: celle di pochissima grandezza, isolate l’una dall’altra, dove i detenuti non potevano alzarsi né pregare; avevano un secchio per i bisogni ed uno per bere; qualora venivano meno alle regole, uno squadrone di cinque soldati entrava per “redimere” il prigioniero. Il trasporto fino a Guantanamo vede i prigionieri incatenati mani e piedi, imbavagliati, con occhiali scuri sugli occhi, depredati di ogni possesso (anche i morti) e lasciati sotto al sole in attesa dell’assegnazione della cella.
Una volta nel campo, i soldati americani intimarono – non sempre in modo pacifico – ai tre di confessarsi terroristi. Dopo mesi di isolamento, torture in cui venivano legati in ginocchio in stanze isolate e senza luce con le mani sotto le gambe costretti a subire luci psichedeliche e musica altissima, dopo umiliazioni continue e abusi di ogni tipo, i tre cercano di confessare, poi ritrattano, poi piangono, poi odiano; i soldati americani fingono di identificarli in foto sbiadite, sgranate e ritoccate urlando: “Sei tu! Eri alla manifestazione di Bin Laden!”. Tre ventenni caduti nell’inferno per sbaglio. Dopo aver riconosciuto la loro innocenza, gli Usa non hanno mai ammesso di aver sbagliato. Asif, Ruhel e Shafiq sono stati rimpatriati nel 2003 senza nessuna imputazione.
Amare l'arte è benessere
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