La storia è vera, più o meno! Domino è il nome di una ragazza, figlia d’arte, modella per forza, che sin da fanciulla si è sentita non appartenere al mondo patinato dell’upper class statunitense; figlia di un noto attore hollywoodiano, ha scelto di non godere dei benefici di quella vita così come è ritratta in un telefilm in voga all’epoca della sua giovinezza, ossia Beverly Hills 90210, bensì ha preferito rompere la noia di tanti aperitivi tutti uguali ai bordi di una qualche piscina scegliendo di diventare una cacciatrice di taglie (bounty hunter). Da quel momento la sua vita si è complicata, generando un vero e proprio “effetto domino” intorno a sé e ai suoi cari. Poiché come dice la stessa Domino: tutti dobbiamo cadere.
Domino Harvey, figlia dell’attore Laurence Harvey, è morta di overdose accidentale – pare non si sia trattato di suicidio – esattamente all’indomani della fine delle riprese del film tratto dalla sua autobiografia; il film negli Stati Uniti è stato distribuito nell’autunno del 2005 e questo ha permesso agli autori e ai produttori di mettere una dedica finale con tanto di immagini di repertorio della vera Domino: nonostante l’attrice di richiamo, Keira Knightley (in queste settimane ribadirà la propria notorietà accanto a Johnny Depp e Orlando Bloom nel nuovo episodio dei Pirati dei Caraibi) e nonostante il regista molto ben quotato negli Usa, in particolar modo nelle sue vesti di piccolo produttore/regista di ben confezionati action movies di medio costo, questo film, costato 50 milioni di dollari, ha alla fine incassato soltanto 10 milioni e altrettanti 10 nel resto del mondo fino ad ora.
Domino è morta ad appena 36 anni, come d’altronde suo padre che se ne è andato per cancro allo stomaco all’età di soli 45 anni, quando la piccola Domino ne aveva appena 4 di anni.
Il ruolo più celebre interpretato da Laurence Harvey fu il Raymond Shaw, accanto a Frank Sinatra, di The Manchurian Candidate del 1962 (Va’ e uccidi, in Italia) diretto da John Frankenheimer, di recente rifatto, mantenendo il titolo originale, da Jonathan Demme.
Il film del 1962 viene citato esplicitamente da Tony Scott all’inizio della pellicola quando la giovane Domino e il resto della sua squadra si scontrano in casa della loro preda e il televisore trasmette immagini dal suddetto classico di quarant’anni fa.
Domino costituisce un tentativo non pienamente riuscito di trarre da una storia vera, con tanto di autobiografia di riferimento, una sorta di thriller, o meglio, di crime movie con sprazzi nella seconda parte di elementi thrilling. Di primo acchito come illustri precedenti che vengono alla mente ci sono l’opera prima da regista di George Clooney, ossia Confessioni di una mente pericolosa, e il Prova a prendermi di Spielberg con l’accoppiata Hanks-Di Caprio, entrambi del 2002.
La sceneggiatura di questo Domino è stata redatta da un giovane talento del panorama cinematografico statunitense avviato ad una carriera poliedrica, altalenante tra piccole produzioni indipendenti dai contenuti più che altro visionari, e budget più sostenuti di produzioni mainstream: stiamo parlando del regista e sceneggiatore di Donnie Darko, il trentenne Richard Kelly.
Se la trama del film è godibile e in linea con gli standard di una crime story con sparatorie, cacce all’uomo e spostamenti rocamboleschi, polizia e delinquenti in continua e cruenta lotta, truffe e doppi giochi, lo stile del racconto soffre di un eccesso di frammentazione: Tony Scott non è nuovo a questo modo di raccontare le sue storie attraverso un gusto a volte troppo ricco di effetti e ridondante di orpelli visivi e sonori, tanto da rendere faticosa la visione e l’accettazione da parte dello spettatore delle dinamiche tra i personaggi.
Non c’è taglio di montaggio o inquadratura che abbia una sua composizione sobria, semplice nella sua linearità: tutto vuole essere a tutti i costi suadente, esasperato nei toni cromatici e negli effetti sonori, tanto da rendere il film più simile ad un video musicale e ad una pubblicità molto ben confezionata.
Non c’è dubbio che questo stile di regia sia caratteristico del fratello minore di Ridley Scott, però non paga in termini di coinvolgimento dello spettatore: troppe volte questi è chiamato a sforzarsi a credere a quel che vede, tutto sembra un lungo trailer e un’interminabile sbornia di immagini eclettiche viste all’acceleratore.
Nel ruolo di se stessi compaiono due celebri protagonisti della decennale serie televisiva Beverly Hills 90210, Ian Ziering e Brian Austin Green; qui non per un semplice cammeo, bensì a tutti gli effetti co-protagonisti: di eccentrico, e in parte inquietante, c’è che per tutto il film vengono di fatto derisi e ritratti come delle vigliacche primedonne frustrate e fallite in cerca di riscatto nel loro settore.
Nulla di anomalo se si esclude che interpretano se stessi quali conduttori di un reality, e prima di accettare il ruolo si presume abbiano letto la loro parte in sceneggiatura. E nonostante ciò hanno accettato. Eccesso di auto-ironia o disperazione in quanto era da parecchio che il loro agente non faceva loro una telefonata?
Amare l'arte è benessere
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