RECENSIONE DI EMANUELA GRAZIANI
VOTO: 9,5
New York. A causa di uno scambio di identità Slevin (Josh Hartnett) rimane coinvolto nelle guerra ordita da due capi criminali nemici: Il Rabbino (Ben Kingsley) e il Boss (Morgan Freeman). Slevin è costantemente sorvegliato dall’inflessibile detective Brikowski (stanley Tucci) e dallo scellerato assassino Goodkat (Bruce Willis). Per riuscire ad uscirne vivo Slevin dovrà tramare un’ingegnosa congiura.
Il film diretto dallo scozzese Paul Mcguigan, già autore dell’eccentrico Gangster Namber One, un crime thriller con Paul Bettany e dell’apprezzato Appuntamento a Wicker Park con Josh Hartenett, torna alla regia con una pellicola vincitrice del Cavallo di Leonardo alla sesta edizione del MIFF, Milano Indipendent Film Festival che ogni anno assegna il premio speciale al miglior film del cinema indipendente. L’estrema raffinatezza del linguaggio e la dinamicità dell’intreccio narrativo rendono la pellicola capace di fondere insieme stile e qualità registica, metamorfosi e criterio visivo. Nell’affermare la sua unicità, il regista Paul Mcguigan, dimostra di possedere una brillante gestione della macchina da presa, stimolata dall’avvolgente fotografia di una livida New York anni 90, catturata nella sua più profonda essenza, come città che ama e che odia.
Con uno stile a metà tra la commedia e il dramma, Slevin-Patto Criminale sembra puntare sulla centralità dei suoi personaggi irriverenti, figli di una New York innamorata, procreatrice delle diversità razziali ma anche vittima di profonde lacerazioni etniche e territoriali. Per un errore d’identità, infatti, Slevin è incolpato di un omicidio che è opera della criminalità organizzata. Fra mille vicissitudini, tra cui la conoscenza di un’energica “medico legale vicina di stanza”, il giovane sarà protagonista di un piano criminale alquanto nefasto e vendicato. Nei suoi occhi scuri, avvolti fra le folte ciglia, scorgiamo un’anima tumultuosa, ma incredibilmente calma, capace di attirare a sé lo spettatore in una fredda compenetrazione fisica, diventandone la guida.
Premiato come Miglior attore protagonista al Miff di Milano, Josh Hartnett è l’autentica rivelazione del film che, a tratti spassosamente kitsch, sprigiona quel senso di paranoia irriverente di una vita vissuta al limite. La pellicola di Mcguigan trova numerosi punti di forza a partire dalla straordinaria messa in scena delle situazioni “private” tra il protagonista e la bella Lindsay. Supportate da un montaggio tagliente e pittorico, le scene d’amore sono costellate da un profondo senso di intimità e di tenerezza, un espediente molto valido nel descrivere il coinvolgimento amoroso all’interno di un intreccio narrativo così complesso.
La carnalità è presente in ogni piccolo tocco della mano sulla pelle, in ogni serrato movimento delle labbra, desiderose di sussurri, respiri e caldi brividi. C’è allora qualcosa di ipnotico nella regia di Mcguigan, nella gestione degli spazi e dei personaggi, tanto da rivelare una genialità tattile straordinaria. La bravura del regista è particolarmente evidente anche nella scena finale, quella ripresa a 180 gradi che muove dal Boss alla sua finestra, attraverso la strada, rivelando lo Sky-line di New York, fino ad arrivare alla finestra del Rabbino.
Un film sorprendente, che alterna vari stili di regia e di intreccio narrativo, che ispira al sentimento pur vietandone uno sviluppo romantico e scontato, che cerca un costante senso della vita umana negandone però la preziosità, che domina l’anima e che santifica l’amore per sacrificarlo all’odio. Un film assolutamente da vedere.
|
|