Due uomini. Solo due. E nessun altro in scena. La luce si accende. Un palco di legno, come ce ne sono pochi ormai. L’uno, nell’angolo in fondo a destra, suona la chitarra e canta. L’altro, al centro, seduto ad un tavolino, scrive. O, almeno, ci prova. Ad un tratto, in un’esplosione d’ira, il ragazzo seduto al tavolino, ordina da bere. Il ragazzo con la chitarra si veste, piano. E’ un cameriere. E va, seccato, a preparare l’ordinazione.
Quando quello rimasto in scena, cerca di trovare l’ispirazione giusta per scrivere la sua lettera d’amore, arriva il terzo. Cappello in testa, cravatta variopinta, valigetta in mano. Bizzarro, dall’aspetto. E quando parlerà non sarà da meno. “Un caffè” dirà ripetutamente. E, altrettanto bizzarro, non ne berrà neppure uno.
Con grande disappunto del cameriere. E grande stupore dell’altro ragazzo che, da seccato per questa presenza invadente, ne rimarrà poi affascinato e sedotto. Tre uomini. Nessun altro personaggio. Uno spazio unico di ambientazione. Ironie sottili. Malinconiche. Con un’amarezza che le retroillumina. Alessandro Galli, autore della scenografia e regista, dice che c’è sempre qualcosa di autobiografico nelle opere di uno scrittore. Il suo debutto. Il suo esordio. E, a conti fatti, si può definire un successo.
La gente in sala ride. Il testo scorre bene. Eppure, alla fine, ti viene da pensare che sia vero quanto è stato detto. Anzi, quanto è stato recitato. Perché, nonostante la finzione scenica, il testo trasuda verità. In forma più o meno lieve. In chiave più o meno ironica. E, interessato ben poco a tenere conto delle esigenze di tutta la platea, Alessandro Galli si cimenta in un’opera il cui scopo è travolgere lo spettatore senza scosse, senza impeto. Come un rigagnolo sottile d’acqua fresca che gela la roccia nei secoli finché un giorno, poi, la spacca.
Amare l'arte è benessere
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