Alfred Jarry è l’inventore della patafisica, la scienza delle soluzioni immaginarie. Una dottrina nata un po’ per gioco un po’ seriamente e che serve a spiegare le leggi che regolano le eccezioni. Quella che a prima vista può sembrare una boutade, o una semplice provocazione, ha fatto riflettere (Calvino, Queneau, Eco), ha prosperato (Collegio dei patafisici di Parigi, Istituto londinese di patafisica), ha dato esiti artistici (Warhol, Man Ray, Baj e i Beatles! E ultimo ma non ultimo Dario Fo).
Jarry quando parla, anche se non gli interessa essere compreso immediatamente, anche se si esprime in modo tortuoso e indiretto, dice cose pesanti.
Così, quando scrive l’Ubu Re (1896), pure nell’assurdità caricaturale dei personaggi, nei toni esasperati e grotteschi, Jarry ha in mente qualcosa di molto preciso: una critica a un certo modo di essere umani, che sembra iperbolico e non lo è davvero. Il protagonista Ubu è un mascalzone, un personaggio senza qualità, o meglio carico di sole qualità negative: è ambizioso ma fifone, prevaricatore ma servile, perfido ma stupido.
L’unica sua aspirazione è il potere, con ogni mezzo. E’ questa è la storia della sua ascesa al trono di Polonia e della successiva calata, sempre in compagnia di personaggi della sua stessa specie. Difficile immaginare che possano esistere individui così perentoriamente negativi. Un barlume di umanità buona in Padre Ubu non c’è. E la stessa commedia era stata scritta inizialmente come uno spettacolo di marionette.
Se questo mostro intollerabile e pericoloso ci appare una caricatura è perché Jarry ha dato, a quella che è rimasta la sua opera più famosa, lo stile della farsa. Il mondo dell’Ubu Re galleggia fra battute, capitomboli, parolacce, espressioni distorte e non sempre comprensibili. L’emersione di una dimensione seria o nobile è incidentale e indiretta. Del resto è la vita politica stessa a prestarsi bene alla presa in giro, allo scherzo: lo sberleffo ai potenti è lo storico momento di critica e di rivincita non violenta del popolo.
In questo caso, però, l’abnormità del personaggio e del sistema politico che crea si gonfia parallelamente all’irriverenza, alla forza e al ritmo martellante della comicità, quasi che digerire un tale insieme di nefandezze umane e sociali – i provvedimenti strampalati e crudeli di Ubu, le mille condanne a morte e la stessa qualità umana del protagonista – sia necessario esasperare la verve comica.
Quasi che il riso fosse l’unico filtro possibile: Ubu dovrebbe disgustarci, invece riusciamo tenerlo a una certa distanza emotiva – e magari a rifletterci sopra. Qui non siamo allo sberleffo del potente, alla rivincita popolare, siamo alla comicità come estrema difesa per stomaco e mente.
Quelli di Grock, una delle principali compagnie milanesi dei circuito semi-alternativo (quello che fuoriesce dagli irraggiungibili parametri produttivi del Piccolo, per intenderci), ha portato in scena questo spettacolo, al Teatro Leonardo di Milano, cercando di enfatizzare questo spirito burlesco. Per due ore quattro eroici attori, supportati da una scenografia immaginifica e splendida, saltano, compiono acrobazie da circo, inscenano continuamente nuovi personaggi a ogni cambio di scena. Un dispendio di energie tremendamente teatrale e ammirevole, che gioca sul filo tra comicità surreale e alienazione (dei personaggi e degli spettatori) senza quasi mai perdere il senso della misura (trattandosi di Jarry, una misura comunque permissiva!).
Magari non funzionano alcune espressioni macchiettistiche della recitazione – Aldo, Giovanni e Giacomo e i Pali e Dispari li abbiamo già visti – o qualche scelta registica che vorrebbe far ridere senza riuscirci. Ma lo spirito dell’Ubu Re è stato salvato e anzi enfatizzato, lo spettacolo scorre bene e si ride spesso. Addirittura è quasi commovente lo sforzo produttivo, in confronto alla semplicità dei mezzi e, in testa a tutto, rimane l’energia degli attori.
Anche Quelli di Grock hanno fatto di tutto per enfatizzare, gonfiare, esasperare. La ferocia della realtà descritta è pari al ridicolo cerone di cui è stata abbondantemente ricoperta. Tirannide e tiranno sono stati ridicolizzati, affinché continuino a farci paura.
Amare l'arte è benessere
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