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C'e' una cosa da confessare subito: la scena iniziale delle vedove a lottare contro il vento spietato sui loro morti, le lapidi rallegrate da fiori eppure coperte da foglie fastidiose che ne oscurano i nomi; questa si' era una cosa memorabile. Un'immagine per tutte. Una premessa e una promessa di incantamento, di narrazione alta, una trovata ambiziosa. E ancora un'altra qualita', prima che ce lo si dimentichi: il ruolo della mamma che non e' mai morta, la tenerezza di quella figura cosi' simile a ogni madre disperante l'amore dei figli, delle figlie: uno strazio, lacrime di rimpianto, di commozione, tentazione facile di immedesimazione.

Con che passo quella donna se ne va, per non piangere, e svolta l'angolo in fondo alle scale, nell'ultima scena! Con che rassegnazione e saggezza di vita porta lei tutto il peso dell'assurdo, dei piccoli e grandi dolori, del tempo perso a fuggire, della tragedia dopo ogni passo!

Pero' qualcosa non ha funzionato come doveva. Qualcosa non convince. Tante le citazioni, gli omaggi. E l'amore di Almodovar per il cinema italiano degli anni '50 straripa da ogni fotogramma: la stanza delle preghiere in cui si veglia il morto, la processione nei vicoli dietro il feretro, un modo di camminare delle donne che hanno troppo seno e percio' faticano ad allungare la falcata.

Tutto il film, protagonista inclusa, sono un omaggio a quel cinema, ma solo come un'icona, come un'immagine vintage, un recupero della vecchia moda. La Cruz ha il seno finto, il sedere finto. Per camminare in quel modo che ricorda la Loren deve indossare delle vertiginose zeppe. Ha i capelli montati a neve e un paio di labbra tatuate sotto gli occhi bistrati. Purtroppo, pero' non e' la Loren e neppure la Magnani, che viene esplicitamente esibita in una sequenza di "Bellissima".

E' che il suo personaggio non ha nessuna grandezza nascosta dietro le meschinita' quotidiane della pura sopravvivenza. La Magnani proprio in quello stesso film, sul finale, resta a guardare i grandi attori dei western americani e sogna di poter cambiare vita, che sia tutta li' la felicita', nei grandi paesaggi proiettati a cielo aperto di un'afosa estate romana.

Ma Raimonda non ha speranze, non ha sogni. Ha subito un danno imparando a sopravvivergli. E' molto eppure non basta. E lo sapeva bene De Sica, quando giro' la storia terribile de "La Ciociara" e quella madre che piange e tira sassi contro le auto dei 'liberatori' fa piangere persino le pietre! Perche' il dramma e' nulla se non distrugge l'illusione, la tenerezza, l'umanita'. Tutto il resto e' telenovela e meccanismo da soap-opera.



(30/05/2006) - SCRIVI ALL'AUTORE


Amare l'arte è benessere

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