La polizia fa irruzione nell’abitazione di una famiglia, i cui componenti sono noti come i reietti del diavolo (da cui il titolo originale), e cattura Mother Firefly (Leslie Easterbrook). Intanto i figli, Otis (Bill Moseley) e Baby (Sheri Moon Zombie), fuggono in cerca di salvezza con il padre Captain Spaulding (Sid Haig) seminando sadismo e morte.
Il secondo attesissimo capitolo delle avventure della famiglia Firefly delude. Se ne “La casa dei mille corpi” l’allegra famiglia si dilettava in sacrifici umani al diavolo, qui si racconta una fuga dalla polizia senza mai far sobbalzare sulla poltrona. Mai una goccia di sangue, ogni scena raccapricciante è appena accennata, il sadismo diventa solo un espediente per far risultare odiosi i protagonisti. Ma, dopo che la polizia –più feroce e sadica dei ricercati- si definisce il braccio sinistro di dio, dopo essere stati traditi da tutti, dopo aver mostrato il lato ‘umano’ di una famiglia che aveva seminato morte e terrore nel primo film, i protagonisti diventano simpatici e quasi dispiace che sia riservato loro questo trattamento.
Dov’è l’horror? Dov’è lo splatter? Sembra che Rob Zombie, da vero musicista qual è, abbia preferito soffermarsi su delle splendide musiche che accompagnano tutto il road movie della famiglia in fuga e su una riuscita fotografia. Girato con originalità, il film perde il citazionismo del primo capitolo e la cattiva famiglia diventa un trio di esuli che ridono tra loro, provano sentimenti umani e scherzano fra loro. Rob Zombie vuole forse mostrarci il volto buono del male? Quali che siano le intenzioni, il film suscita ilarità: cosa si può immaginare di più triste per un horror che il riso degli spettatori? In sala nessuno ha gli occhi incollati allo schermo, nessuno stringe la mano sul bracciolo della poltrona.
Si parla, si ride, si commenta ad alta voce, sanno tutti come andrà a finire e i dibattiti tra il poliziotto e il critico cinematografico su Groucho Marx e Elvis Prisley sono la sequenza più “spaventosa” dei 101 minuti di pellicola. Un horror per chi non ama l’horror, insomma. La scena in cui Otis viene crocifisso alla poltrona, nel contesto in cui viene girata, non suscita alcuna reazione e, col senno di poi, la domanda sulla locandina “Avrai il coraggio di entrare?” diventa improvvisamente chiara: ci vuole davvero coraggio per vedere un sequel così deludente. L’umorismo nero di cui si vorrebbe tingere è paradossale e scade nel ridicolo, del tutto fuori luogo per il genere d’appartenenza del film.
Stupisce che, dopo lo splatter estremo lanciato da pellicole come Hostel, un seguito così atteso si colori di accenni, rimandi, scene lasciate intuire senza descriverle. Stupisce che tra coltelli conficcati nel cuore, maschere di pelle umana e gole recise, niente sia montato nella giusta atmosfera cupa che consenta, ai più deboli di cuore, di chiudere gli occhi davanti alla potenza mediatica dello schermo. Un film che può vedere chiunque, anzi, da vedere soprattutto se non viene apprezzato l’horror come genere cinematografico. Decisamente mal riuscito, da videocassetta.
Va apprezzata, di certo, l’originalità e la tematica della libertà come un bene inestimabile per chiunque: nelle ultime scene del film, Rob Zombie pone l’accento sulla lotta per l’indipendenza, fisica, mentale e sociale. Libertà ad ogni costo, fino al limite. Tema assai più complesso di poche righe in una recensione. Ma ammiccare ad una famiglia di adoratori del demonio che compiono sacrifici umani è una presa di posizione piuttosto forte ed ancor più provocatoria: il cinema horror torna ad urlare basta con il politically correct e si sa che l’horror è avvezzo a questo genere di proteste. Come ha detto Joe Dante a Master of Horror: “E’ indicativo il fatto che una vera polemica sociale e politica sia consentita ormai solo attraverso film di genere horror”. Con queste riflessioni, sconsigliando la visione del film nonostante la valenza sociale ed etica di cui è investito, si consiglia piuttosto una riflessione sulla società in cui viviamo dove il male è l’occhio buono che vede il male tutto intorno a sé.
Amare l'arte è benessere
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