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MISSION: IMPOSSIBLE III
TITOLO ORIGINALE: Mission: Impossible III
REGIA: J. J. Abrams
CON: Tom Cruise, Philip Seymour Hoffman, Laurence Fishburne,
Billy Crudup, Ving Rhames, Keri Russell, Michelle Monagham,
Jonathan Rhys Meyers, Maggie Q
USA 2006
DURATA: 126 minuti
GENERE: azione
VOTO: 6,5

Lorenzo Corvino

Ethan Hunt, veterano delle missioni impossibili, sta per cambiar vita: è sul punto di sposarsi con una donna ovviamente ignara del suo stato di agente segreto. La sera della festa per il suo imminente matrimonio riceve la comunicazione per una missione di recupero: una giovane agente da lui addestrata è stata rapita da un trafficante d’armi, il pericoloso e cafone Owen Davian. Da questo momento inizia una nuova avventura che inevitabilmente investirà anche gli affetti più cari trasformando la missione in sfida personale.

Non si può parlare a tutti gli effetti di terzo episodio, dal momento che non c’è propriamente un nesso narrativo che leghi fra loro indissolubilmente questi film ispirati alla celebre serie televisiva omonima. Tant’è che possono essere visti senza conoscere i precedenti o senza ricapitolare gli altri prima della visione dell’ultimo. E’ più proficuo guardarli come termometro di un gusto e di una cultura della narrazione avventurosa contemporanea che di reincarnazione in reincarnazione, da un numero cardinale al successivo, ci informa delle diverse tendenze dei gusti del pubblico della società occidentale in generale e delle nuove capacità realizzative dei veri maghi e illusionisti dell’era moderna, ossia i realizzatori degli effetti speciali visivi e sonori.

Il film ha una struttura di sceneggiatura abbastanza schematica, scandita in cinque macrosequenze d’azione (Berlino, Roma, Stati Uniti, nuova Shangai, vecchia Shangai) ben distinte fra loro, al punto che potrebbero essere serializzate in cinque puntate/tranches diverse di un telefilm, che come si sa dura assai meno di un film tradizionale. Quel che ci stupisce è che probabilmente dei tre fino ad ora realizzati questo è il più fedele alla formula della matrice originaria: vuoi perché per il regista viene dal piccolo schermo per cui ha realizzato due serie di successo come Alias e Lost (si dice che ora realizzerà l’undicesimo episodio della pluridecennale serie cinematografica di Star Trek), vuoi perché la natura episodica di questo M:I-3 esalta i meriti di una squadra di agenti addestrati a saper fare di tutto senza superpoteri, ma soltanto grazie alle doti dell’ingegno.

Inalterati – e anzi enfatizzati – i cliché del marchio di fabbrica della serie: i messaggi che si autodistruggono, i doppiogiochisti, i camuffamenti con i volti ricostruiti in laboratorio (c’è da dire che il momento in cui Hunt diventa Davian è abilmente sottolineato da un piano-sequenza in cui l’effetto speciale è magistralmente mistificato digitalmente, tanto da sembrare verosimile al 100%), e infine, ovviamente e soprattutto, le varie missioni impossibili (azioni di spionaggio altamente pianificate, traboccanti ritmo, tecnologia e tempestività).

Delude tuttavia il bilanciamento dell’azione nell’economia generale del film: tutta la parte conclusiva, l’ampia porzione ambientata in Cina è troppo debole, provocatoriamente la potremmo definire “minimalista”, rispetto ai primi due terzi del film in cui assistiamo ad un crescendo di tensione adrenalinica e ad un dosato e brillante scandaglio psicologico dei personaggi principali. Difatti la migliore sequenza in termini di spettacolarità non è, come si potrebbe pensare, l’ultima, bensì quella centrale ambientata su suolo statunitense.

Il film è nettamente superiore al virtuosismo cinetico del secondo film diretto da un ripetitivo seppure circense John Woo; d’altro canto inferiore, per chi scrive, per atmosfere e amalgama dell’intreccio, al primo film di dieci anni fa diretto dal sofisticato Brian De Palma.

Degno di merito è il regista della seconda unità (meglio noto nel suo caso come action unit director), Vic Armostrong, sconosciuto ai più, ma una vera garanzia di professionalità quando si tratta di dirigere scene d’azione. Chiamato dai più grandi proprio per assolvere questo arduo compito su cui si gioca poi la responsabilità principale della riuscita commerciale di tanti blockbuster statunitensi.

Infine, un'ammiccante quanto autoironica chiave di lettura inserita alla fine del film dagli sceneggiatori: ad un certo punto Hunt chiede cosa sia la “zampa di lepre”, l’oggetto della contesa tra Hunt e Davian; ed effettivamente mai lo sapremo con certezza. Il fatto che alla fine di tutto abbiamo assistito ad una serie spettacolare di eventi in nome di un qualcosa che neppure sapremo cosa sia fa pensare a quanto il maestro del thriller, Alfred Hitchcock, professava: l’importante è inserire in un film quello che lui chiamava un McGuffin (che poi in realtà non è letteralmente niente), purché questo misterioso oggetto svolga il ruolo di innescare l’azione, in quanto oggetto del mistero, di far mobilitare le pedine e favorire la narrazione di un intreccio che catturi l’attenzione dello spettatore. Così avviene in questo film; assistiamo ad una corsa contro il tempo per una “zampa di lepre”-McGuffin che poi resterà Top Secret.

Ma che importa il film è filato via e il pubblico lo ha visto gustandoselo.




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(09/05/2006) - SCRIVI ALL'AUTORE


Amare l'arte è benessere

  
  
 
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