Ci vuole coraggio. Oggi, ieri, su qualsiasi palco. Proporre un testo provocatorio come questa commedia in due atti, non capita tutti i giorni.
Roberto Bacci l’ha fatto. Ha intrapreso il tour de force, l’ha intrapreso con il pubblico, con i pubblici. ”Ci siamo messi la corda intorno al collo”, scrive Stefano Geraci, consulente drammaturgico dello spettacolo che ha debuttato in ottobre a Pontedera.
Uno spettacolo che si rivela fedele all’opera originale, ma allo stesso tempo divertito nel tradirne i particolari. Tradimenti necessari per dialogare con il testo, come li chiama Bacci. Basti pensare ai due protagonisti principali, Vladimiro ed Estragone, interpretati dalle gemelle Luisa e Silvia Pasello. Due donne, quindi. Scelta azzardata che fatta eccezione per polemiche preconcette, ha soltanto dimostrato la grande esperienza delle attrici.
Quattro personaggi e una comparsa. Queste le creature.
Due atti, uno più tragico dell’altro nella loro calcata vuotezza di senso. La scena spoglia, come i rami dell’unico albero presente. Un tronco appeso a un filo, come la pazienza dello spettatore. Già, perché se il pubblico parigino degli anni cinquanta usciva dalla sala chiedendosi se per caso qualcuno non lo avesse preso in giro, ora le cose non sono cambiate di molto. L’impatto resta lo stesso. Simboli privi di interpretazioni restano sparsi sul pavimento ghiacciato.
L’attesa inizia e finisce con Vladimiro ed Estragone, Didì e Gogò per gli intimi, sul palco soli. Potrebbero essere due fratelli, due amici inseparabili per pratiche vicissitudini, perché no marito e moglie. Ma l’identità dei due, quella non ci viene mai svelata, né la relazione che li lega. Capiamo solo che stanno insieme da talmente tanto tempo che neanche se lo ricordano. E a dire il vero non si ricordano più un sacco di cose. Fanno fatica a distinguere il “prima” dal giorno precedente, a riconoscere luoghi ormai calpestati fino all’annientamento dei sensi.
Questa la tragedia. I sensi annientati dall’attesa. L’attesa di qualcosa che non conosciamo, forse la favola a cui abbiamo smesso di credere. È così che Didì e Gogò, una sorta di Stanlio e Onlio a misura di palcoscenico, risultano terribilmente invischiati nella loro irreversibile immobilità. La goffaggine da ridicola diventa angosciante. Due clown finiscono per trasformarsi in presenze spettrali di un’umanità che non vuole assistere alla messa in scena della sua insensatezza. Presto lo spazio scenico diventa soffocante. Per i personaggi, per il pubblico. L’attesa dell’ignoto impedisce azioni, paralizza prospettive di cambiamento.
Stanno aspettando Godot. Ma da quanto tempo? Non riusciamo a dirlo. Sappiamo solo di una strana coppia di viandanti che è passata di qua. Un ricco villeggiante e il suo fedele servitore. Pozzo e Lucky. Sono passati due volte e hanno delirato entrambi. Poi nulla. Non sappiamo più nulla.
Stanno aspettando Godot. Stiamo aspettando Godot. La situazione è talmente surreale da sembrare reale. Ci lasciamo andare ad una isterica risata durante il delirio di un Lucky dalla faccia pallida. Assurdo teatro dell’assurdo!
Quante volte Didì e Gogò ci hanno giurato di andarsene, che basta, non ce la facevano più a stare lì, ad aspettare. E invece niente, ci sono ancora. Immobili.
Sull’albero sono spuntate le foglie. Quanto ci metteranno i due ad accorgersene? Troppo. Gogò vede solo la sua scarpa rotta. Didì sta pensando a un modo semplice e poco dispendioso per andarsene. Magari impiccandosi.
Allora andiamo? Andiamo. E’ l’ultima battuta. Peccato che i due rimangono immobili. Come all’inizio. Sui loro corpi cala il buio. I segni dei loro volti non si vedono più. Non è morto nessuno, ma è una tragedia lo stesso. Ad andarsene non ce l’ hanno fatta. Hanno preferito credere alla favola. Quella voce ingannevole e menzognera che soavemente e dal nulla ci annuncia: questa sera Godot non verrà, ma di sicuro domani.
Foto di Maurizio e Federico Buscarino
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