“Signore, signurizzo miu”. Inizia così, con un canto soave e inquietante di donna, il viaggio crudele che Vincenzo Pirrotta propone agli spettatori in un piccolo teatro romano, all’ombra del gazometro.
Forse la scelta di rappresentarla qui, questa commedia in un atto di Luigi Pirandello, significa già qualcosa. Siamo nella zona industriale della città, alle spalle degli ex magazzini generali, oltre il ponte dell’Industria, all’interno dei caseggiati dell’ex Mira Lanza. Da fabbrica di saponi a fabbrica di espressioni, ci suggerisce una scritta all’entrata. Ed entriamo, appena consapevoli dello scenario surreale che ci si dispiega intorno.
La sala è raccolta. Il palco ci si offre nudo, senza tela. Quella che Pirandello aveva fatto scendere nel ’25, inaugurando il Teatro dell’Arte a Roma. Al posto della facciata frontale della chiesa paesana, una piramide smussata in punta. Nel nero dell’insieme rimbomba ancora un canto amaro, forse quello dei precedenti spettacoli. Buio.
E comincia. Questa sagra agrigentina. Spaccato siciliano popolare già nella parlata. Approccio rituale alla quotidianità impregnato di sacro e profano. Proprio di tutte le realtà paesane dei piccoli centri dell’Italia meridionale. Dove il sovrapporsi delle tradizioni si porta dietro miti e false leggende, la confusione delle credenze umane. Così, nella tiepida domenica settembrina si celebra la scanna del maiale. Lo stesso giorno dedicato al Signore della Nave, questo imponente cristo insanguinato, protettore dei marinai.
La sacralità della lirica iniziale si insozza presto di disincanto. In un baleno i popolani accedono alla scena dal retro, tra le poltrone. Urlano parole diverse, insieme. Sono un turbinio di colori e suoni. Sembrano in trance. Fanno l’amore negli angoli, mentre la piazza si prepara alla scanna. In piedi sui tavoli il tavernaio e il norcino incitano gli animi e i palati al grande evento. Sugli scalini della chiesa-piramide un orchestrina accompagna le voci. Un cieco prega in silenzio.
Ma è all’apparire dei due interlocutori principali, che il gioco si fa grottesco. Un certo signor Lavaccara, proprietario pentito del grasso maiale che sta per essere scannato. E un pedagogo “professore di umanità”. Chi sarà allora più maiale? Il porco, che passa la vita a ingrassare per gli altri, o l’uomo, che si sporca le mani e l’anima dei suoi peccati e poi piange e si batte il petto dietro al suo cristo crocifisso?
Ecco che assistiamo alla distorsione delle nostre certezze. Riti sabbatici e processioni si confondono. L’ode al maiale e il pianto dei marinai sopravvissuti non si distinguono. I pezzi di carne appesi dietro i tavoli diventano lanterne. L’odore di sangue si mescola con quello di candele. C’è un sapore orgiastico e dissacrante nell’aria. Le danze di festa sono marce funebri. Le facce non sono più facce ma maschere nude. Marionette decapitate con un bastone di legno piantato nel collo. Sembrano i disegni che Marco Fantini ha realizzato per la locandina dello spettacolo.
È questa la sua umanità? Urla esasperato Pirrotta nelle vesti ingombranti di Lavaccara, al pedagogo. È un grido disperato, verso l’assurdo e bestiale destino dell’uomo. A un tratto la luce si fa purpurea. Appare il Signore della Nave. La carcassa martoriata. Appesa come si fa con la carne al macello. Il pianto collettivo dei pugni sul petto. Sembra un ritorno al teatro corale greco.
No. Non esiste tragedia più tragedia di questa.
Info:
Teatro India
Lungotevere dei Papareschi
00146 – Roma
centralino 06 684000361
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