Nel bel film di Woody Allen da poco uscito nelle sale si sviluppa il tema della fortuna che accompagna la vita di alcuni individui e del talento che spesso, e sempre con grande sorpresa, non conduce a un'esistenza di bellezza e soddisfazione.
E, sebbene la trama sembri dare ragione alla fortuna eleggendola a migliore compagna per chiunque miri alla felicità, resta appena il dubbio che forse, anche col talento, magari con qualche macchina e qualche gioiello e una poltronissima in meno, si riesca a godere i benefici dell'amore, degli affetti, di qualche conforto materiale.
Molti ragazzi italiani lamentano il fatto che il proprio talento non venga sufficientemente gratificato, sia nella vita strettamente professionale che in quella -spesso sviluppata come attività parallela- di vera passione e pura creatività. Insomma, né le aziende né il mercato dell'arte in ogni suo genere riescono a individuare, a scovare, a riconoscere il vero talento e poi a incoraggiarlo, a premiarlo, a fornirgli i mezzi necessari per realizzarsi.
Molti se ne restano fuori dal meccanismo, da tutto, dai vari carrozzoni in eterno movimento, buoni in ogni stagione, in ogni tempo, persino quando sono passati di moda. Molti altri, invece, si arrovellano davanti alla tv, infuriati e increduli per lo show dell’approssimazione e dell’inettitudine in onda a testimoniare che tutti –ma proprio tutti tranne loro- possono andare a farsi addomesticare nella pista circense da qualche abile presentatore.
Non c’è rimedio, non c’è nulla da fare. Non si può cambiare il gioco né le sue regole. Eppure si può continuare a credere nel proprio talento, senza piagnistei, senza lamentarsi troppo, con un civile senso di realtà che non diventi per forza rassegnazione allo stato delle cose. Si può rendere giustizia ai propri doni, alle proprie attitudini solo amandole, facendole crescere coi propri mezzi, con la propria generosità e con l’aiuto –sebbene immateriale- degli altri.
Possiamo conoscere noi stessi solo attraverso lo sguardo di chi ci osserva. E possiamo conoscere il mondo e provare a capirlo solo attraverso le debolezze nostre e dei nostri simili. E non è detto che solo cedendo all’andamento eterno delle ingiustizie esistenziali si possa star meglio, sperando sempre intimamente di essere chiamati un giorno al centro di una scena purchessia, nel bel mezzo di un pallido occhio di bue. Perché non è a questo che serve il talento, né ad avere il potere o il possesso degli oggetti –persone incluse.
La tv può essere corretta, insieme alle “ingiustizie” che sembra perpetuare proprio come longa mano della realtà. La tv può essere anche recuperata dal profondo “trash” che la divora ogni giorno poco a poco. Ma non c’è bisogno di moralismi, né di educatori, né di esperti del buon senso e del buon gusto. Ognuno –purché non debba vendere qualcosa attraverso l’uso di un altro mezzo- lo porta con sé questo concetto della misura e della verità.
Il talento, visto che non ha scopo oltre se stesso, non può essere usato per la redenzione di alcuno, tantomeno del mondo mediatico. Qualche volta, se lo si asseconda, può salvare chi lo possiede. Ed è già molto non dovere fare i conti con i fantasmi interiori che –come accade appunto in Match Point- vanno a far visita ogni sera al proprio “fortunato” lato oscuro.
Capire, criticare, divertirsi, non assuefarsi è benessere
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