Partiti come il Pri di Nuri (Partito della Rinascita Islamica), l’Ht (Hizb ut-Tahrir), il Miu di Namangani (Movimento Islamico dell’Uzbekistan) diventano allora i nuovi protagonisti senza volto della nostra era, costretti ad operare nell’illegalità perché messi al bando dai governi locali in quanto opposizioni all’unico partito, con tutto il seguito che questo può trovare tra popolazioni profondamente esauste delle proprie condizioni di vita.
Tutto ci scorre di lato, come dal finestrino di una jeep usata. La sofferenza della guerra civile tagica, i conflitti etnici, i ricatti energetici, le pazzie di Karimov (capo dell’Uzbekistan), gli attentati di Dusahnbe, la resistenza talebana in Afghanistan, le elezioni truccate, i progetti globali del saudita Bin Laden, i traffici illeciti di armi e droga sul confine tagico-afghano, i mali endemici che la comunità internazionale non ha voluto vedere fino a quell’11 settembre, capaci di distruggere il tessuto sociale di stati piccoli e indissolubilmente legati gli uni agli altri.
Ma è l’ immagine reiterata di uno Juma Namangani, carismatico capo del Miu, che scende dalle montagne dopo ogni campagna militante contro i regimi del 2000, puntualmente accompagnato in esilio da elicotteri russi, con tanto di trecento pastori e donne al seguito della sua barba, a farci pensare quanto lontana sia quella realtà dalla nostra. In un attimo, il fascino del romanzo popolare lascia in bocca l’amaro di connivenze irrisolte tra militanti e regimi, regimi e grandi potenze. L’amaro di una minaccia globale, che nasce tra le montagne, nelle steppe, e non si sa dove va a finire.
Amare l'arte è benessere
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