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Quest’ultimo invece vuole definirsi commedia per bocca del suo stesso autore. A detta di Wenders egli ha voluto fare il film che sempre avrebbe voluto: ovvero una commedia, una tragedia, un road movie, un film con Sam shepard, un film con Jessica Lange, un western, un family drama, tutti questi insieme. Peccato perché Wenders sembrava aver imbroccato nuovamente la via del cinema sofisticato e fantasticante con La terra dell’abbondanza, per quanto fosse un suo titolo minore, pur sempre emotivamente giustificato; ma quest’ultimo è un film del tutto pretestuoso senza anima.

Rivela troppo quell’intenzione sopra citata: fare un film che sempre si è desiderato fare mescolando le carte e, ahinoi, facendo trasudare costruzione e forzature da tutte le parti. Un personale divertimento che non ha nulla a che vedere con l’intrattenimento o con la riflessione. Non si perdona a Wenders una scena come quella del figlio naturale di Shepard che preso da un raptus di rabbia getta dalla finestra tutte le cose della sua stanza: perché se esse non sono, peraltro, neppure legate al ricordo del padre, che di certo non gliele ha mai regalate? Allora perché ricorrere ad un’esternazione di rabbia così scontata, già vista, e così troppo assecondata e presa sul serio dallo sguardo del regista? Veramente odioso questo figlio che dovrebbe invece far commuovere.

Meglio la figlia naturale che vaga con l’urna delle ceneri della madre, una sempre misteriosa e intrigante Sarah Polley, attrice ventiseienne canadese, già ammirata ne Il dolce domani, Il mistero dell’acqua e La mia vita senza me. Non a caso a lei è affidato il momento più prettamente tragico e toccante del film. Ma la verità è che il film manca di un vero dramma e di un vero oggetto del desiderio da dover conquistare o di una deadline che fa fremere lo spettatore. Tant’è che la riappacificazione tra padre e figlio arriva tanto in fretta quanto in maniera del tutto inspiegabile, irrisoria.

La comicità di cui si fregia Wenders è del tutto gratuita ed ha il respiro del nonsenso piuttosto che delle gag divertenti. Manca poi il movente fondamentale che spinge il protagonista a mollare tutto improvvisamente. E’ troppo facile partire già con il nostro eroe in fuga, il quale si è dato solo per sé la sua personale spiegazione senza comunicarla a terzi, che poi saremmo noi spettatori.

Si obietterà che questo è solo un incipit come tanti altri per un film che non vuole vedere nella trama il suo punto di forza, come dopotutto mai è stato nella filmografia di Wenders. Si è dimostrato spesso un regista intento a sfruttare dei nuclei narrativi come trampolini per uno sguardo sempre nuovo ed efficace su talune realtà e metafisiche manifestazioni della spiritualità umana che solo la sua cinepresa così personale e meditabonda riesce a catturare (pensiamo, senza andare troppo indietro al Wenders storicizzato, a Lisbon Story del 1995)

Ma questa volta alla trama esile e per nulla accattivante, neppure nel nucleo, non si affianca una rappresentazione visiva dello spazio western contemporaneo degli Usa sterminati. Una rilettura né demistificante né interrogante. Pare anzi che abbia preso i quadri di Hopper e li abbia riprodotti in set senza fare alcuno sforzo creativo. Troppi tempi morti che sembrano prefigurare un avanzamento della storia o del carattere dei personaggi che invece non arriva mai.

Quindi per la prima volta abbiamo un Wenders che letteralmente gira a vuoto con la sua macchina da presa: pensiamo al momento in cui Sam Shepard si siede sin dal mattino sul divano scaraventato fuori dalla finestra dirittamente in mezzo alla strada dal suo figlio naturale irato con lui per l’abbandono, e vi resta sino al mattino successivo; ebbene per questo momento Wenders sceglie di ricorrere a tanti carrelli semicircolari a segnare il passaggio di tempo, veramente troppi e sempre uguali, senza fantasia, come un puro esercizio di stile, che farebbero gola al giovane regista esordiente, e di cui in un film di Wenders non se ne vede proprio la necessità.



(03/10/2005)


Amare l'arte è benessere

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