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L'ORTO BOTANICO - 100 PAROLE SU - NON SOLO RECENSIONI - GUARIGIONE COME CRESCITA - ANGOLO DELLA PSICOLOGA -DOSSIER-
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Tutto questo in nome della ciccia e dell’arrivarci in fretta. Ma la ciccia nel caso di Argento sono carne, sangue e, possibilmente, le care, vecchie inquadrature. E queste ultime latitano. Sono probabilmente due le scene all’altezza del suo passato: quella iniziale nel museo e un lungo piano-sequenza in cui non capita niente, tranne la tensione dello spettatore. Per il resto tanta carne esibita, tanto sangue, buoni effetti speciali artigianali (ma quelli digitali sono piuttosto miseri). Troppo poco e troppo facile: si va prevalentemente per accumulo e la capacità di inquietare e spaventare del passato, viene sostituita da uno stile “Gore patinato”.

Anche le buone intuizioni, come quelle di una Roma sconvolta, dove esplode una follia indistinta – e si coglie la tentazione della critica sociale – si disperdono di fronte a scivoloni sia di scrittura (le tragicomiche scazzottate sullo sfondo di ogni scena in esterni dalla metà del film), sia tecnici (di un’evidenza imbarazzante il bambolotto che precipita dal ponte).

Restano alla fine sguarnite sia la tensione narrativa che la qualità estetica. Ma se da Argento non si sono mai pretese sceneggiature di ferro (eppure Tenebre o Profondo rosso si reggevano in piedi) o speculazioni filosofiche (pure, in controluce, frequenti), almeno ci si attendeva della sana inventiva horrorifica, la sapienza estetica al servizio del brivido.

Era un visionario innovatore; è diventato, da oltre quindici anni, prigioniero del suo stesso mito, un manierista che fatica a emulare il proprio stile. Dario Argento è stato negli anni Settanta un maestro. Ha creato uno stile e persino una poetica riconosciute e imitate; la sua capacità di stringere le viscere degli spettatori muovendo la macchina da presa nello spazio e nel tempo, cioè attraverso l’essenza visiva del linguaggio cinematografico, è stata riconosciuta sempre, anche da chi lo ha accusato nei decenni di furbizia.

Ma negli ultimi lavori a uno smottamento ulteriore dei contenuti si è accompagnato un impoverimento dello stile. La mano è sempre quella, e talvolta emerge, ma la classe di trent’anni fa, la cura maniacale dei dettagli visivi, la sofisticatezza delle soluzioni estetiche si è persa. Potrebbe provare ad appaltare in toto le sceneggiature e concentrarsi sulla regia; potrebbe lavorare più sulle atmosfere e meno sul sangue; potrebbe, come dice provocatoriamente qualcuno, dedicarsi ai cortometraggi, nei quali sarebbe impeccabile. Ma oggi, di fronte a La terza madre, si capisce perché i fan di Argento sospirino e persino la critica, immalinconita, non se la senta più di affondare il coltello.


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