La Storia va avanti e dalle pagine evanescenti della leggenda si è ormai giunti alla “cronaca nera” della dura realtà quotidiana di una grande metropoli, Roma, che all’epoca di Nerone contava più di un milione di abitanti quando le altre città arrivavano al massimo a due-tremila abitanti…
Andrea Giardina, professore di Storia romana all’Università La Sapienza di Roma e Presidente dell’Istituto italiano per la storia antica, ha fatto rivivere con sorprendente attualità le “infuocate” giornate del cosiddetto incendio di Nerone che divampò nella notte del 18 luglio del 64 d.C.
Le fiamme, per nove giorni, divorarono la città e, soprattutto, la già dubbia reputazione del giovane imperatore, Nerone, che venne additato quale principale sospettato di una delle più grandi catastrofi della storia: migliaia di vittime e splendidi monumenti ridotti in rovina. Delle quattordici “regioni” (quartieri) in cui Augusto aveva suddiviso Roma, ne restarono intatte, infatti, solo quattro, tre andarono completamente distrutte e le altre sette ne uscirono gravemente danneggiate.
Il disastro fu immane e, come sempre accade in questi frangenti, per placare l’animo delle masse c’è bisogno di trovare un capro espiatorio, il mostro da sbattere in prima pagina: Lucio Domizio Nerone, con la sua indubbia personalità borderline, rappresentava l’incendiario “perfetto”.
Nelle vene di Nerone, d’altronde, scorreva una micidiale miscela di sangue ereditata dal padre Domizio Enobarbo e dalla madre Agrippina dei Claudii.
Domizio Enobarbo, ovvero Domizio Barba-di-rame, aveva la fama di essere l’uomo più sanguinario di Roma; in quanto ad Agrippina era notorio che la nobile signora si era liberata di un marito vecchio e ingombrante, l’imperatore Claudio, servendogli a cena un “prelibato” piatto di funghi avvelenati.
Nerone, alla morte del padre adottivo Claudio, divenne imperatore nell’anno 54, quando aveva appena diciassette anni. Per i primi cinque anni – il cosiddetto “quinquienno felice” – il giovane imperatore, guidato dalla madre, dal precettore Seneca e da Afranio Burro, prefetto del pretorio, governò in modo saggio e moderato, rinunciò al titolo di pater patriae e si rifiutò di firmare condanne a morte. Quando fu costretto a fare un’eccezione, brandendo lo stilo esclamò: «Potessi non aver mai imparato a scrivere! ».
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