Il lavoro è l’ultimo grande tabù del mondo occidentale. Non ne sono rimasti altri. Si può fare tutto tranne smettere di lavorare, o peggio ancora non voler nemmeno iniziare. I tabù sessuali sono ormai ricordi di un secolo fa, direi per fortuna. Le tavole di Mosè sono state aggirate con filosofica abilità e un certo allargamento di braccia come a dire ‘vabbè, ma io proprio che posso farci se..’.
Il mondo va così, siamo abbastanza rassegnati da capire (e giustificare) quasi ogni umana e inumana debolezza. Da un lato questo ci rende più civili e meno ideologici, dall’altro ci toglie ogni forza di reazione a fatti e comportamenti che minacciano la nostra e altrui felicità. Eppure, in mezzo a tanta elasticità e piccole cialtronerie un monolite resiste tra i luoghi comuni: chi non lavora è un lavativo.
E’ un mantenuto, un ignavo, un essere poco utile a sé e agli altri. Un pigro come minimo, un furbo sicuramente. Destinato a diventare un ozioso, forse anche un delinquente. Non dico di chi cerca e non trova un lavoro (e anche in quel caso i proverbi contro lo sventurato si sprecano) ma proprio di quelli che a lavorare non ci pensano. E’ questa l’unica delle azioni umane universalmente avvertita come criminosa. Curioso no? Si è disposti a chiudere un occhio persino sugli scaldasedie, su quanti cioè vanno ad occupare un posto unicamente in senso fisico e senza nessuna utilità reale, ma non su quanti –forse meno ipocritamente- quel posto lo lasciano libero consapevoli di non essere ‘tagliati’ per certe incompetenze…
Poche sono le cose che ancora ci identificano: lievemente le convinzioni religiose o politiche, poco il ceto sociale e il livello di istruzione quando c’è, quasi niente le virtù umane, le attitudini personali.
Domina certamente lo stato economico e diciamo implicitamente il ruolo nel mondo del lavoro. Ecco, ciò che agli altri dice moltissimo di noi è il lavoro che facciamo. Giusto o ingiusto che sia, la nostra professione diventa un filtro, facile e accessibile, per capire con chi abbiamo a che fare.
Ci si fa davvero un’idea dell’interesse che una persona veicola a partire dal lavoro che svolge. Avvocati, commercialisti, direttori di banca; impiegati, commercianti, parrucchieri, edicolanti; ristoratori, ballerini, camerieri, maestre d’asilo: una conversazione per ogni categoria, una domanda diversa sulla vita di ognuno, argomenti possibili di condivisione a seconda del tipo di vita supposto in base al reddito.
Chi non lavora, invece, crea un certo disagio, un imbarazzo. Nell’interlocutore intanto: che non sa se può informarsi sulla questione. Nel caso che sia impossibilità meglio non aprire ferite e glissare delicatamente verso altri temi. Nel caso, invece, che non sia sfortuna ma volontà allora l’imbarazzo diventa rabbia soffocata, astio mascherato dietro l’ombra di qualche salace battuta.
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