Quasi nessuno sa bene cosa significhi ‘liberalizzare’ un’attività, una licenza, un mestiere. La cosa più evidente è che questo significhi allargare il mercato, offrire al ‘consumatore’ più possibilità di scelta, una varietà di offerte e di prezzi che il monopolio di solito non consente.
Una volta, tanto per capirci, esisteva solo il piccolo droghiere sotto casa, il vecchio ‘alimentari’ che imponeva alla merce un costo senza paragoni e senza concorrenza reale. Oggi, invece, esistono le grandi catene di supermercati, i discount, i triscount; e così ognuno può scegliere in base al proprio reddito e alle priorità dove andare a spendere e cosa comprare.
Sembra una regola molto democratica e induce a pensare che la questione sia tutta qui: dunque liberalizziamo qualsiasi attività e certamente il cittadino ne trarrà benefici. La democrazia, però, non può prescindere da forme di regolamentazione che tutelino il cittadino e la qualità dei servizi di cui usufruisce.
Altrimenti la liberalizzazione continua a mantenere aperto il divario tra classi sociali e possibilità economiche: invece di assottigliare le differenze ne sottolinea e ne amplifica i risvolti. C’è e ci sarà sempre, infatti, chi può fare la spesa in negozi di prima scelta come Franchi e Castroni e chi comprerà mozzarelle di finta bufala in offerta speciale di ignote sottomarche. Difficile capire da che parte si guarda questa medaglia. E’ giusto o no che ci sia un negozio per ogni tasca? E a discapito di chi va l’abbassamento della qualità? Non se ne esce.
I tassisti sono tra le categorie più protette e privilegiate del mercato del lavoro in Italia. E chiunque abbia viaggiato un po’ per l’Europa sa che in nessun altro paese arrivare in taxi all’aeroporto è tanto costoso. Qualcuno dice che col decreto Bersani non si avrebbero più garanzie sulla qualità del servizio e sulla affidabilità dei nuovi tassisti dipendenti, ipoteticamente, da grandi aziende appaltatrici. Così anche per gli avvocati: l’abolizione della quota minima di pagamento delle prestazioni e il fatto di poter pattuire un compenso sulla base del risultato raggiunto in tribunale creerebbe tra avvocato e cliente un patto di solidarietà ‘immorale’: insomma i due diventerebbero soci in affari e si aprirebbero varchi di illegalità attualmente inesistenti (!).
Tutte le categorie colpite, farmacisti inclusi, fanno di tutta questa faccenda una questione ‘etica’, dicono che la liberalizzazione spianerebbe la strada ai capitalisti in grado di fondare associazioni all’americana oppure anche alle cooperative, già pronte a immettere da settembre farmaci da banco negli scaffali dei supermercati. Allora, a ben vedere, la questione non è più –e forse non lo è mai stata- di principio, ma diventa squisitamente economica.
La domanda è: verso quale tipo di società del lavoro stiamo andando? Esistono ed esisteranno ancora i ruoli, saranno tutelate le qualifiche professionali? Sarà possibile salvaguardare la dignità di chi offre un servizio oltre alla tutela di chi lo paga? Siamo tutti soltanto consumatori? La concorrenza deve avere delle regole, deve rispettare dei limiti? E chi controlla e chi stabilisce le regole e i limiti? Il mercato è un territorio davvero aperto a chiunque sia fornito di mezzi e libera iniziativa oppure diventa sempre più spazio di monopolio di chi detiene i grandi capitali? C’è qualcuno che può comprare tutto?
Il decreto Bersani non ha avuto un buon debutto: ha raccolto brutti articoli da parte della critica e un mucchio di fischi dal pubblico degli interessati. Non si capisce ancora bene se il difetto sia nel testo impasticciato o in una cattiva regia. Certo è che la stagione è appena cominciata e il botteghino ha ancora molti biglietti da vendere. Sapremo di qui a qualche mese –ma sulla lunga distanza se ne vedranno i frutti tra qualche anno- se lo spettacolo risultava di genere comico oppure drammatico.
Consapevolezza è benessere
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