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Entriamo allora in questi slum, una delle realtà più incredibili che si possano vedere con occhi occidentali. Come quello di taxi, anche il concetto di slum è impreciso: ne esistono di diversi tipi. C’è la casa senza muri, consistente in un tratto di marciapiede, più o meno convenzionalmente delimitato, sopra il quale si trova appoggiata tutta la vita quotidiana dei suoi abitanti. Per terra si cucina, su un fuoco approntato, si mangia e si dorme, magari sopra un pagliericcio. Ci sono seggiole scassate, tavolini, piatti con avanzi di cibo, taniche d’acqua. Sui muri retrostanti si trova appeso di tutto: cesti con le cipolle, immagini di divinità hindu (spesso Ganesh, il dio con la testa di elefante, amato perché rimuove gli ostacoli), poster, sacchetti pieni di ogni cosa. E gli abitanti stanno seduti lì, a volte sorridono se ti avvicini e magari finiscono per offrirti un’aranciata.

Esiste un vero e proprio mercato di queste “case”, che hanno un loro valore in rupie e vengono comunemente vendute e affittate. Un altro caso frequente è la linea di baracche in lamiera ai bordi delle arterie principali, una fila di casupole di latta che può durare anche chilometri senza interrompersi mai. Qui il marciapiede non c’è nemmeno: l’uscio delle case dà direttamente sulle carreggiate, dove ventiquattr’ore al giorno sfrecciano o si incolonnano automobili vecchissime, rumorose e inquinanti. Al fianco di questo fiume di macchine si vive: i bambini si rincorrono, indifferenti alle auto e abilissimi a schivarle, come noi evitiamo i pedoni in un viale affollato. Poi uomini che si lavano per strada, che mercanteggiano, donne che si riposano e chiacchierano. L’acqua corrente molto spesso non c’è, l’elettricità nemmeno.

Visto con occhi occidentali questo sistema di vita è insostenibile, eppure osservandolo da vicino ci si accorge che è una possibilità di vita reale: gli slum non sono emergenza, sono la normalità. Un’altra normalità, che riguarda la maggioranza della popolazione indiana. Uomini e donne che spesso hanno un lavoro, anche se umile e poco tutelato; che non sono riconosciuti dallo stato, perché spesso non figurano in nessun archivio amministrativo; che vivono dentro baracche bollenti d’estate, e puntualmente allagate nella stagione dei monsoni.

Quest’India affianca quella degli informatici, degli ingegneri e dei matematici, celebri ed esportati in un tutto il mondo. Un’India che cresce a ritmi che spaventano i paesi occidentali, ma che non riesce a distribuire il reddito, anche a causa di un incremento demografico ancora incontrollato. In questo paese non solo i soldi circolano male, ma anche quella relativa redistribuzione che esiste non può tenere dietro alle culle che ogni anno traboccano. Per le strade di Mumbai non c’è spazio: uomini, case e baracche lo riempiono tutto, fino all’asfissia. Sui treni del pendolarismo di Mumbai i vagoni di prima e seconda classe sono identici, ma la prima costa dieci volte di più solo perché è meno affollata e si riesce a respirare durante il viaggio. Lo spazio si paga e, chi può, lo compra.

Anche l’aria, letteralmente, si paga. Succede negli “oxygen bar” che stanno sorgendo a Mumbai: locali alla moda occidentale, dove insieme a un cappuccino o a un cocktail si può sniffare un po’ di ossigeno aromatizzato, per dimenticare per qualche attimo l’assedio della puzza di smog o di decomposizione che si respira per strada. Rupie spese per sottrarsi agli odori della crescita incontrollata, diseguale, prodotta da troppe macchine, troppe fogne e pochi servizi.

Naturalmente l’indiano medio è abituato a essere compresso nei treni, a respirare male, a lavori scadenti e mal pagati, magari anche a vivere dentro tuguri. Non ci fa troppo caso e, anzi, ha imparato la tolleranza e l’arte di arrangiarsi, come già era nello spirito di una cultura da tempo abituata a incontri, scontri e sincretismi. Ma le abitudini sono sistemi in (relativo) equilibrio, a volte costruiti su presupposti del tutto malsani. Dimenticarsi o non avere mai saputo quali altri possibilità di vita esistono per la maggioranza della popolazione indiana non può essere una scusa: non per chi governa e nemmeno per chi subisce.

E in fondo è la stessa sostenibilità di questo modello, oltre all’etica, a essere in discussione. Troppi fili sembrano tesi allo stremo, troppe contraddizioni sono scoperte e accelerate dall’ansia di ricchezza e occidentalizzazione della nuova India globale. Un subcontinente enorme e contrastato, un gigante che costruisce grattacieli, dimenticando di avere ancora piedi di latta.


(24/05/2006) - SCRIVI ALL'AUTORE


Viaggiare con i 5 sensi è benessere

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