In India non esiste un solo modo per dire taxi. Si può dire cool cab, taxi, rickshaw, persino wallahs. Ciascuno corrisponde a un servizio diverso: i cool cab sono macchine più recenti, spesso senza alcuna ammaccatura, sono blu elettrico e hanno l’aria condizionata. Molto più numerosi sono i taxi, le tradizionali auto gialle e nere, quasi dei residuati, perlopiù pieni di bozzi e fasciati di scritte, che non ti spieghi come faccia il guidatore a vedere fuori. Il rickshaw è un triciclo a motore, giallo e nero, una specie di Ape Piaggio col tendalino, che può ospitare fino a tre persone – che possono diventare anche cinque o sei secondo il creativissimo pragmatismo indiano. Infine i wallahs, gli ultimi della catena, un uomo a piedi (o in bici) che traina un uomo seduto: il risciò tradizionale.
Per le strade di Mumbai, spesso sterrate, si trova tanto altro: mucche, questuanti, venditori di arachidi e di polpette piccanti, fogne, cani spelacchiati, odori fortissimi, che si succedono nello spazio di pochi metri sotto la cappa di sole e smog. Pochi isolati più in là ci sono i grattacieli, i centri commerciali, le cravatte e le ragazzine vestite all’occidentale, che sorseggiano un caffè quasi occidentale in riva al mare.
Sono frequenti gli scorci in cui questi due mondi si sovrappongono anche visivamente: sullo sfondo grattacieli più o meno eleganti, cui fanno da modesto primo piano le baracche di latta o stracci. In linea d’aria poche decine di metri, a volte letteralmente affiancati. Fronte e retro di una società che, anche se ci provasse, non potrebbe nascondere le sue infinite, esplosive contraddizioni.
E’ la sensazione principale che ci si porta indietro da Mumbai, quella di un calderone enorme, dentro il quale si mescola di tutto: appartenenze religiose, caste, lingue, stratificazioni sociali e culturali, sacche di ricchezza e spianate di miseria. In occidente quello del taxi è un concetto scontato, tutto sommato univoco; in India no, la società si sta stirando, si amplia e si diversifica e loro si sono dovuti adattare: a ciascuno il proprio taxi, in marcia verso la propria baracca o villetta, secondo i tracciati della sperequazione. Una varietà così stridente e concentrata da essere quasi unica al mondo.
L’India, con oltre un miliardo di abitanti, è la più grande democrazia del mondo, dal momento che la Cina, l’unico paese più popolato, continua a coltivare la sua insofferenza verso i diritti e il pluralismo. I tassi di crescita dell’India sono da diversi anni sui livelli del miracolo cinese o poco meno: 6% all’anno, a traino dell’industria informatica, dei servizi, del tessile. I ricchi sono sempre più ricchi, il ceto medio si espande significativamente, le metropoli si gonfiano di masse speranzose, che lasciano la vita rurale attratte da un boom economico che perlopiù volteggia ai piani alti dei grattacieli.
Con livelli di crescita così elevati esiste una certa redistribuzione della ricchezza, ma le persone che vivono con meno di un dollaro al giorno sono il 34,7%, quelle che arrivano a meno di due dollari sono l’80%. Anche al netto del costo della vita, decisamente più basso che nei paesi occidentali, si capisce che una parte imponente della popolazione conduce una vita che arriva a malapena alla sussistenza, o poco oltre. Per pochi ex braccianti inurbati che realizzano il loro sogno di riscatto economico, migliaia di nuovi arrivati si ammasseranno ai bordi delle megalopoli, rinfoltendo gli slum (le baraccopoli) esistenti o formandone di nuovi. Quando va bene, si tratta di nuovi lavoratori sottopagati e sfruttati, che rinforzano quel settore “informale” dell’economia indiana che contribuisce poderosamente alla crescita del paese.
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