Lo champignon si chiama così anche in Italia perché i francesi sono stati i primi a coltivarlo su larga scala. Da noi sarebbero i prataioli, e le prime tracce di coltivazioni simili in Italia si hanno già nel primo secolo dopo Cristo.
Ma gli imperatori romani e poi i comuni italiani in fatto di marketing dovevano essere arretrati, così, quando dal 1650 si cominciò a coltivare lo champignon nei dintorni di Parigi, i francesi ne fecero una specialità propria.
E c’era della suggestione dietro quelle coltivazioni che si poteva far fruttare: innanzitutto lo champignon si coltivava dentro buie grotte, concimato con abbondante stallatico equino; dal 1670, poi, Luigi XVI acconsentì all’allevamento di champignon dentro il giardino di Corte. Si capisce che furono i francesi ad apporre il loro sigillo culturale al prataiolo.
Eppure gli italiani si difendono bene. Lo dimostra l’iniziativa dell’AIF (Associazione Italiana Fungicultori) che, insieme ad associazioni di altri paesi europei, lancia in questi giorni la campagna per lo “Champignon d’Europa”.
L’iniziativa mira a garantire il consumatore rispetto ai principali parametri qualitativi del fungo. Italia, Francia, Belgio e Spagna lanciano questa campagna per la divulgazione delle virtù del modesto champignon, parente povero del borghese porcino e dell’“aristocratico” ovulo.
Il mercato del prataiolo europeo è insidiato, per quanto riguarda il fresco (la parte preponderante della produzione nostrana), dai prodotti rumeni e turchi, e sul versante dell’essiccato e del surgelato dai cinesi.
L’incidenza della manodopera sul costo finale del prataiolo è del 50% circa. Si capisce come il lavoro a bassissimo costo dei cinesi consenta loro di mantenere prezzi bassissimi. I cinesi hanno persino tempo e mezzi per coltivare e raccogliere dei prataioli grandi meno della metà di quelli europei a cui siamo abituati.
Come in altri settori dell’alimentare, i principali paesi europei rispondono sul versante della qualità, garantita lungo tutta la filiera e riscontrabile sulle etichette dello champignon fresco. Sulle confezioni italiane, oltre alla tradizionale data di impacchettamento, è riportata anche quella della loro raccolta.
E’ un esempio delle numerose iniziative promosse dalla campagna “Champignon d’Europa” per la salvaguardia sottovalutato prataiolo, ora anche minacciato dai cuginetti cinesi e dell’est Europa.
L’Italia, in particolare, è il quarto produttore europeo quanto a valore della produzione (160 milioni di euro all’anno) e forse il primo dal punto di vista della rigidità dei parametri qualitativi: la produzione italiana è quella sottoposta alle normative più restrittive in termini di utilizzo di antiparassitari e principi attivi.
Per converso, da noi lo champignon ha riscosso finora un successo modesto: ne mangiamo circa 2,4 kg in un anno, i francesi quasi cinque chili, i tedeschi più di tre. Il cuoco e il nutrizionista potrebbero raccontarvi che si tratta di un’occasione persa: un po’ come il pane, lo champignon si sposa bene con tanti cibi, inoltre risulta digeribile e benefico dal punto di vista dietetico.
Un altro di quei casi in cui l’Italia non ha saputo valorizzare le proprie risorse? L’avevamo scoperto da tempo e lo chiamiamo con un nome straniero; siamo uno dei più grandi e attenti produttori e ne mangiamo pochissimo.
Se è vero che il regime alimentare di un paese ha molto a che fare con la sua cultura, forse il piccolo e semisconosciuto prataiolo italiano, come tante altre realtà nostrane in vari campi, meriterebbe di essere presto riscoperto.
Conoscere cosa mangi è benessere
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