Cadono petali da nuvole di cotone. Il vento porta tra le mani sabbia a manciate, polvere dappertutto, lino leggero tra fili di seta e pietre cangianti. Il sole si scioglie dietro l’orizzonte infuocato. Barche, in lontananza, si allontanano dal niente che ci circonda e ci avvolge come una seconda pelle. Il calore sale dalle zolle dissestate di terra. Tutto caldo, senza tregua. Vaniglia e cannella danzano nei profumi lontani dei ricordi, nei labirinti senza curve, tra mani stanche che intrecciano arbusti secchi per farne corone.
Il sorriso di pietra di bambini dalla pelle d’ebano soffoca ogni parvenza di civiltà. L’ingiustizia dei mondi sotterranei vige in uno stato di natura che non ha niente a che spartire con noi, al di sopra dell’equatore. La serenità della mancanza di vita e l’inquietudine delle nostre marche di vestiti. Le fabbriche, abbandonate, senza nessuno che sappia come avviare il grande sistema dello sviluppo internazionale, dormono ai lati di strade senza asfalto.
Piedi scalzi. Piedi. Sandali che camminano da soli sui banconi sudati di un mercato a cielo aperto. Parlare lingue differenti per accorgersi che ci sono gesti, che le lacrime, che un sorriso, possono essere così vicini al cuore di chiunque. Così universali. Così veri. Guardare negli occhi di corvo il viso malinconico delle speranze infrante. Morte alla nascita. Morte senza nessuno che abbia avuto il tempo di sperarle. La morte, accanto alla vita. Attorno e sopra a tutto ciò che c’è.
La vita che ride di se stessa e si pone al di sopra delle contingenze e delle dissertazioni in cui sprecare altro tempo. Più di quanto, lì, ce ne sia a disposizione per ognuno. Brevi aspettative di vita. Insulse, per i tempi cui siamo abituati noi. Noi occidentali. Noi, perché le differenze esistono. Nonostante non ci piaccia vederle, nonostante sottolinearle sia più crudele che ignorarle. Nonostante tutto, il pacifismo e i buoni propositi, noi siamo gli occidentali.
Siamo sempre quelli con la macchina fotografica. Quelli con carta e penna. Con le scarpe ai piedi. Ed anche se cammini scalzo, anche se non ti importa della tua pelle, così luminosa e bianca, anche se butti via la civiltà e ti lasci confondere dagli odori e dai giochi di luce dei tramonti in groppa all’altezza da capogiro di un dolce cammello, sei ancora un occidentale. Uno che fa l’anticonformista. Uno atipico. Migliore degli altri, forse. Ma un occidentale, uno con il biglietto di ritorno in tasca.
Quello che si può fare è strappare almeno un lembo di terra, stringere la sabbia tra le mani, respirare ed urlare nel vento affinché la voce arrivi fino all’orizzonte e lo divori. Calpestare e lasciare impronte indelebili mentre l’Africa ti avvolge e si insinua nei pori della pelle. Uno scambio reciproco. Un sorso di siccità e sole sempre accesso. Un assaggio di paprika, soffiata piano da labbra di antracite. Non si può tornare da un viaggio sulla fine del mondo senza portarsi dentro una goccia di eternità.
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