La macchina fotografica. A guardarla, è solo un pezzo di plastica con un obiettivo sopra. Di per sé, non vale nulla. E, paradossalmente, neppure dopo assume grande valore; se non fosse che quell’oggetto, figlio di un’invenzione che ormai si perde nella storia, ha il dono di imprigionare il tempo. Clic. E tutto si arresta, tutto converge nell’obiettivo e si imprime sulla pellicola del rollino. Lì. Per sempre. Incatenato a quell’attimo, in eterno. C’è qualcosa di spaventoso, in questo e come tutte le cose molto potenti, è anche bellissimo. Il potere di bloccare un’immagine. Non nella nostra mente. Non soggetta alle rivisitazioni della memoria. Non più solo nostra ma di tutti, così come l’abbiamo vista noi: senza possibilità di interpretazione, senza scampo. Il clic della macchina fotografica è lo scacco matto alle nostre percezioni differenti. Il mondo - che sia tale oppure no - io l’ho visto così per un attimo seppure breve e, in quell’attimo, lo è stato davvero.
Il pericolo del fraintendimento, talvolta, ci spinge a riflettere in maniera smodata su cose di cui siamo già consapevoli. Riflettere al punto che noi stessi rimaniamo confusi ed incerti, perché porsi troppe domande è sbagliato quanto non porsene nessuna; non fa altro che accrescere il divario che intercorre tra noi e gli altri. Quella massa incolore e di cui abbiamo scarsa percezione che sono gli altri. Ma in una fotografia può non esserci niente da capire. Può essere facile, scattarne una e mostrarla alle persone. Cosicché, lì, tutti percepiscano una parte (seppure minima) delle nostre preferenze. Si può negare che abbiamo bisogno di cose facili e senza conseguenze? Azioni senza controindicazioni. Senza effetti collaterali. Qualcosa di facile e bello come un clic. Che apra varchi sulla nostra coscienza: i paesaggi dell’anima, da cercare intorno a noi ed inondarli con i nostri sentimenti. Il paesaggio, penetrato dall’individuo, ne sente a sua volta la presenza e diventa il luogo del confluire. Il centro del tutto. Il centro del nostro cerchio. Il cerchio della nostra umanità. “Avrò lì, forse - scrive Victor Segalen il 9 giugno 1908- un angolo in cui mi sentirò davvero a mio agio, in cui potrò buttar giù sotto forma di piccole prose brevi, dense, non simboliche, tutto il rovescio della mia personale visione”. Il paesaggio, terreno solido e sfuggente, è chiuso e posseduto dall’obiettivo. Si può negare l’evidenza? Taluni sarebbero inclini a dire di sì. Probabilmente, in alcuni casi, è addirittura vero. Ma davanti all’immensità delle emozioni, nel connubio di sentimento e paesaggio, non ha valore il nostro negarci a noi stessi e, soprattutto, agli altri. Un’istantanea è come spiare un angolo del paradiso personale che ognuno di noi ha dentro di sé: gli altri e l’altrove comprendono tutto ciò che è al di fuori dei nostri fatti quotidiani, tutto ciò che non appartiene alla nostra tonalità mentale consueta.
Avere l’occasione di combinare ciò che siamo con ciò che, per natura e per decisione, non siamo è un’esperienza totalizzante che coinvolge i trecentosessanta gradi della nostra personalità, che ci proietta nel tempo e nello spazio sospeso dalla logica e dalle categorie che se li contendono. Essere nel mondo e non esserne spettatori non soffoca la personalità, bensì la arricchisce. I veri alimenti sono dappertutto. Sono i veri appetiti che mancano. E forse siamo troppo spaventati e troppo lontani, come il lamento solitario e vano di Eco, per mostrare agli altri il mondo visto dai nostri occhi; temiamo i canti delle Sirene ed indeboliamo noi stessi, annullando ciò che ci circonda. L’eternità è a portata di clic. Eppure, forse, non l’abbiamo mai davvero compreso a fondo. A Parigi, nel dicembre del 1908, un letterato (il suddetto Victor Segalen) incline allo studio, che lo condusse alla pazzia, di ciò che circonda ogni essere umano scrisse: ”La mia facoltà di sentire il Diverso e di riconoscerne la bellezza mi porta ad odiare tutti coloro che hanno tentato di indebolirlo o di negarlo, costruendo sintesi noiose. Per bilanciare il mio punto di vista volutamente totalizzante, faccio affidamento sull’esistenza, nella realtà, di nozioni contrarie, su quelle simili e su coloro che le sfrutteranno entrambe”.
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