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DJANGO E LA SUA CHITARRA, FIAMME SENZA TEMPO
Cosa succede a una chitarra di strada che incontra il jazz nella Francia anni ‘30? Miti e leggende di un uomo chiamato Django. Due dita sole e un cuore zingaro.

Claudia Bruno

Sono passati esattamente settentasette anni, quattro mesi e quindici giorni da quel terribile incendio. Era il novembre del ’28, e lui tornava a casa dopo una serata a ritmo di banjo nei locali parigini. Casa, si fa per dire. Ma per lui lo era eccome. Un caldo, caro carrozzone di famiglia. Niente di più prezioso. Sì, insomma, un campo nomadi, un cumulo di roulotte, chiamatelo pure come volete.

Fatto sta che suonava il banjo, lui. E quella sera per non svegliare la moglie inciampò nei fiori di celluloide che arredavano la sua piccola roulotte. Leggenda o non leggenda, si dice ancora che fu un mozzicone di candela acceso dalla donna per vedere cosa fosse accaduto, a causare fuoco e fiamme. Del resto, anche il vento dolce di novembre fece la sua parte. In breve il campo intero si trasformò in un inferno. Non sarebbe rimasto che un mucchietto di cenere, di quel caldo, caro carrozzone ai margini della periferia parigina. La sua famiglia ci si era trasferita più di un decennio prima, dopo vagabondaggi vari per restare al largo dalla grande guerra. E infatti lui non era francese. Era nato a Liberchies, in Belgio, nel ‘10. Ma forse non era neanche belga. Lo spirito libero delle sue origini indo-europee, impediva etichette nazionali. Rom o manouche? Zingaro. Questo era. Nelle vene e nell’anima. E di quelle due dita in meno non sapeva davvero che farsene. Anulare e mignolo della mano sinistra, erano infatti rimasti inutilizzabili dopo quella notte.

Strane coincidenze della vita. Una mutilazione morale in cambio di una chitarra. Il banjo era ormai troppo ruvido e pesante per una mano cui restavano da muovere solo l’indice e il medio. E smettere di suonare poi, proprio non se ne parlava per un autodidatta ribelle come lui. Eccolo qua. Analfabeta, extracomunitario, ora anche handicappato. Il genio del gipsy jazz. Signore e signori, Django Reinhardt.

La cicatrice a forma di sole, sul dorso della mano sinistra, è ancora visibile nelle foto di copertina delle raccolte a lui dedicate. Il signore del jazz europeo. Sigaretta in bocca, gelatina tra i capelli, un ghigno strafottente in volto, e due, due sole dita sul legno duro della chitarra. Sorprendenti e capricciosi virtuosismi, inimmaginabili fino ad allora. Rivoluzione musicale? Sicuro. Soprattutto se pensiamo che fu uno zingaro a regalarci un jazz degno di rappresentarci. Un bel pugno nello stomaco all’american way of jazzing.

Del resto la chitarra era entrata nel jazz da poco, e Django sapeva come solleticarne fuori i più irrequieti spiriti. È quello che fece. L’incontro con Stéphane Grappelli, violinista pronto a seguirne le follie, fu cruciale. Nel 1934, a Parigi, nasce The Quintet of The Hot Club of France. Reinhardt, Grappelli, Vola, Chaput e Joseph. Tre chitarre, un violino, un contrabbasso. La prima formazione jazz europea in grado di competere con i padri neri. Uno spasso.

Già, perché lo stile di Django era così. Spassoso. Non si abbandonava alla normalità, come lui non si era abbandonato al destino. Era un’improvvisazione a tratti arrogante, tzigana, come il sangue che gli scorreva nelle vene. Uno stile nuovo nella tecnica e nel risultato, che si portava dietro tutto il folklore etnico di cui il suo temperamento era impregnato. La scelta costante dello strumento acustico ha sicuramente contribuito a mantenere la sensazione di sonorità “ruspanti” all’orecchio, pur nella loro impeccabilità. Anche quando cominciarono a suonarsi le prime chitarre elettriche, Django continuava a preferire l’acustica. Si dice addirittura che litigasse quotidianamente con il magnete che aveva posizionato vicino alla buca, sulla cassa, collegandolo ad un amplificatore.

D’altronde era lui quello del carrozzone. Anche la sua chitarra doveva essere zingara. Non poteva certo permettersi di legarsi a sterili comodità. Una chitarra di strada, questo doveva restare. Cocteau l’aveva definita “la chitarra dalla voce umana”. E che chitarra! Strappata, percossa, violentata con la forza dei due ditoni rimasti.



  
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