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La maggior parte dei casi umani di influenza aviaria in Asia sono dovuti al consumo di pollame infetto e non correttamente cotto. La diffusione da uomo a uomo non è mai stata confermata.

La morte di esseri umani in seguito al contagio, sempre secondo i dati forniti dalla Lipu, ha un tasso di incidenza talmente basso in confronto alla quantità di contatti fra uomini e pollame infetto, da risultare ininfluente ai fini della decisione di un abbattimento di massa, non solo crudele ma anche dannoso perché gli uccelli selvatici, per sfuggire ai cacciatori, si sposterebbero ulteriormente in cerca di rifugio aumentando il rischio di trasmettere la malattia, se infetti.

Stop, quindi, al massacro immotivato di uccelli migratori, abbattuti in Asia a milioni per arginare la diffusione del virus. Nell’agosto 2005, in Cina, più di 200 persone di sono ammalate per questa ceppo altamente patogeno trasmesso dai suini- anch’essi allevati in precarie condizioni igieniche.

Per tentare di ridurre il pericolo di contagio epidemico, si dovrebbero cambiare le tecniche di allevamento e la vendita di pollame in condizioni insane. Ci si è tanto preoccupati dei commerci e delle finanze che ruotano dietro la vendita di carne, che si è trascurato spesso- e volentieri- l’elemento etico. La retorica del trattare gli animali con più umanità nasconde profonde ripercussioni sulla vita dell’uomo. Siamo ciò che mangiamo. E se ciò che mangiamo non è sano oppure vive in allevamenti intensivi in condizioni, non solo non igieniche, ma anche contrarie alla natura, anche noi ne risentiremo.

Le batterie sono luoghi angusti dove gli animali vivono stipati, in condizioni igienico-sanitarie drammatiche, l’uno sopra all’altro, per tutta la loro breve vita. Questo tipo di allevamenti favorisce unicamente gli allevatori che vendono di più e spendono di meno. Ma la tragica realtà è che perfino questi ultimi, alla lunga, sono sfavoriti da questo metodo. Epidemie come l’aviaria, infatti, fanno crollare le vendite e mandano in rovina proprio coloro che hanno contribuito indirettamente alla diffusione del virus.

Quando il pollo arriva sulle nostre tavole, si porta dietro tutto questo. Gli ormoni che l’hanno ingrassato, le condizioni in cui ha vissuto, il dolore di cui si è nutrito. Possibile che non ci rendiamo conto di tutto ciò? La risposta è tragicamente: no. Non per cattiveria ma per cattiva informazione. Sono talmente tanto gli intermediari tra l’animale vivo e la nostra confezione di pollo già tagliato e sistemato nella scatola che chi vuoi che vada a pensare al pollo? Magari, quando li vediamo razzolare- sempre più di rado- ai lati delle autostrade, sorridiamo. Li indichiamo. Li osserviamo. Non è crudeltà, non necessariamente. Solo che l’industria alimentare, e non solo, ci ha insegnato a non pensare. E’ così facile, non pensare. Si vive così bene, senza pensare. Se non fosse che per ogni pensiero mancato c’è qualcuno che soffre.


Si ringrazia Rachele Malavasi per la consulenza scientifica


(01/03/2006) - SCRIVI ALL'AUTORE


Conoscere la terra che abiti è benessere

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