Primi giorni del duemilaesei
L’ho incontrata per la prima volta il giorno di natale, e si può dire che sia stato un colpo di fulmine. Ho capito subito che non dovevo lasciarmela sfuggire. Dato che lei era piuttosto discreta ho dovuto vincere la timidezza e farmi avanti. Non è stato difficile portarmela a casa, anche se era di una bellezza così delicata che quasi avevo paura a toccarla. L’ho tenuta con me.
Fine gennaio
Stende le sue mani adunche sulla parete, quando il sole filtra dalla finestra, e anche la sera, ai piccoli raggi da quaranta watt della mia lampada da lettura (Tolomeo: orgoglio del design). Non riesco a smettere di guardarla. Lei e la sua ombra, la sua ombra e lei, dal muro al comò, dal comò al muro. L’ho sistemata in camera da letto, un po’ per tenerla meglio sotto controllo, un po’ perché di là in soggiorno mi sembrava soffrire troppo (il lato nord della casa è freddo, buio, pieno di spifferi). È così magra nel corpo (come piace a me: struttura in evidenza) che i suoi occhi giganti appaiono sproporzionati. Devo però precisare che i lunghi piedi (quelli sì, ben più carnosi, ma non grassi, elastici e lucidi, pieni di salute) le conferiscono equilibrio, facendo da contrappeso al testone.
Ogni lunedì le do da bere, forse è poco, ma odio il marciume e credo che vada bene così: non si è mai lamentata. Inoltre provvedo a rinfrescarle la pelle quotidianamente con qualche spruzzatina d’acqua, e non manco mai di spolverarla (la casa è piena di acari, ogni giorno bisogna pulire bene i pavimenti e i ripiani e gli oggetti e i fogli da quel pulviscolo che danza nei raggi di luce e poi si posa ovunque: quando mi sveglio, alle otto di mattina, so che durante il mio riposo loro hanno lavorato senza sosta e devo combatterli con costanza).
È così bella che ho i brividi quando mi fermo a contemplarla (cosa che seguito a fare con la massima venerazione, anche per controllare che tutto proceda per il meglio). So che non durerà in eterno, e allora l’ho fotografata nei minimi dettagli: da distanza brevissima, coi tubi del macro a collegare il corpo macchina Contax 139 e l’obiettivo 50 millimetri Karl Zeiss (planar, diaframma 1,4, il migliore della mia scuderia): ho archiviato ogni sfumatura della sua figura slanciata, ogni tessuto, e la sua ombra stesa lì dietro.
Diapositive, stampe, colore e bianco e nero (kodak t-max 400, che sgrana un po’, ma non tradisce mai) per non perdere nemmeno un ricordo del suo splendore. Perché non posso fare a meno di notare che la decadenza è già in agguato, anche se lei, tanto per cambiare, fa finta di niente: gli strepiti e le urla di dolore non si addicono alla sua classe. Ridotta com’è, pelle e ossa, non può nascondere i segni dell’invecchiamento. Entro breve rimarrà solamente lo scheletro. Niente più occhi, niente capelli, niente colori. I piedi e quel corpo striminzito.
Io l’amo davvero, e fino alla fine la proteggerò, mi prenderò cura di lei. Ciò che temo più di ogni altra cosa è il momento (e arriverà presto, purtroppo) in cui dovrò occuparmi di ridurre al minimo le sue funzioni vitali, per evitare che muoia.
Una settimana più tardi.
Ecco. Osservo il suo corpo spoglio, le nocche sgraziate e le unghie da vecchia (sì, erano così anche prima, ma non si notavano). Non parla. Ha la dignità di una diva in pensione, che evita ormai di uscire di casa, se non di tanto in tanto per fare la spesa, e fa mostra di aver dimenticato i propri trascorsi gloriosi, eppure chi la conosce sa che quando è sola si chiude nel salotto tutto tappeti e soprammobili (e chissà quanta polvere!) a guardare le foto di gioventù, gli articoli che parlano di lei, le targhette e i riconoscimenti che sanno di ruggine (e polvere, polvere dappertutto). Nonostante la sua pudica reticenza, io che la capisco riesco a distinguere la qualità di questo nuovo silenzio, tanto diverso da quello passato (il silenzio trionfale e magnanimo di chi si sente ammirato).
È arrivato il momento, dunque. Ho comprato un paio di cesoie nuove nuove perché i miei tagli siano netti e precisi (senza provocare un’inutile supplemento di dolore). Le sfioro le foglie con le dita, temporeggio. Mi sono già fatto un’idea dei punti esatti nei quali praticare le amputazioni, mi sono informato per bene. Il guaio è che adesso mi manca il coraggio di procedere: e se sbagliassi? Il pensiero che un errore potrebbe ucciderla mi terrorizza. Forse anche lo stato in cui si trova deriva da qualche mia colpa. Le ho tenuto troppo il fiato sul collo? L’ho soffocata di attenzioni? Non le ho dato abbastanza da bere? Eccesso di calore? O viceversa, qualche spiffero malandrino l’ha ridotta così?
Basta, queste speculazioni, per quanto naturali, sono del tutto fuori luogo. È tempo di tagliare le sue parti periferiche, per darle modo di concentrare le energie e lasciare che la sua vita continui sottotraccia, nell’ombra.
Rifiorirà?
Nicola Balossi Restelli
(17/02/2006)
Prendersi cura delle proprie piante è benessere
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