Natale, da festa religiosa a isterico rito pagano. “Il Natale: quando arriva, arriva” come minacciava uno spot qualche tempo fa. Quasi fosse ineluttabile, come la rata del mutuo o le zanzare. Una condanna imposta dal calendario che ci porta in dono la zia petulante, la ressa nei negozi, gli auguri scambiati in punta di guancia coi conoscenti. Il Natale – non Babbo Natale o tanto meno Gesù Bambino, loro, poveretti, non ci chiedono niente –, diciamo piuttosto il Movimento Sociale per il Natale, ci vuole pronti, reattivi, generosi. E addirittura contenti e sorridenti.
Un’imposizione sociale che sa di ricatto, di ipocrisia. Che alle persone che non hanno di che sorridere giunge lontana, incomprensibile, se non fastidiosa o addirittura problematica. Del Natale si è perso il senso in un tempo piuttosto lontano. Ogni anno si sprecano gli appelli al recupero del significato vero di questa festa. Naturalmente restano disattesi e l’anno dopo siamo da capo. Il simpatico signore vestito in uno sgargiante rosso Coca Cola (ma non è nata da qui la sua divisa) ci invita, per bocca di altri, a fare contenti bambini e bambinoni con i regali.
E l’amministrazione comunale attiva la nostra salivazione pre-natalizia accendendo le – sempre più grigie – luminarie ormai un mese e mezzo prima della festa. A ruota le vanno i negozi e le pubblicità. E poi noi. E’ sin troppo facile fare la solita tirata contro il consumismo che ha preso in ostaggio il Natale. Anche se è una verità e c’è anche questa alla radice dell’alienazione emotiva cui molti arrivano durante le feste natalizie.
Il Natale spesso non porta felicità, ma mette in risalto l’infelicità. Enfatizza per contrasto la vera condizione di una persona, sbattendole in faccia l’impossibilità di aderire a quella falsa e generalizzata dell’allegria a tutti i costi. Chi è povero, a Natale si sente ancora più povero; chi è solo trova il silenzio ancora più insopportabile. Il nostro stato d’animo precede e supera il Natale.
Questo, come tutte le cose di cui non si vede il senso, è buono ad attivare per contrasto sentimenti negativi, di esclusione, di rifiuto, in chi è predisposto, per carattere o per la stagione che attraversa, a viverlo male. E nemmeno è la tristezza “sana” di chi si sente escluso dal benessere vero: semplicemente chi è in difficoltà si trova più esposto emotivamente e quindi portato a subire le conseguenze negative di un rito svuotato.
In compenso chi è felice o sereno guadagna poco dal Natale, al massimo l’occasione di farsi un paio di mangiate in compagnia o di ricevere qualche bel regalo inaspettato. In tutti i casi, benefici che non discendono realmente dal Natale, di cui questo non è la causa, ma al massimo il pretesto. Chi sta bene non trova nel Natale nessun vero valore aggiunto. Tutto questo a fronte dei molti casi “medi”, in cui il Natale è “sopportato”: corse e code ai negozi, cenoni di famiglia ipocriti, ansie da regalo. In tutti i casi il Natale non comunica più qualcosa di intenso, perché, come tutte le cose di cui non si vede o non si avverte più il senso, non riusciamo più a stabilirvi una relazione vera e profonda.
Allora, se il Natale non è più in grado di comunicare realmente con noi, dovremmo provare noi a condurre il gioco fino in fondo e a servirci del Natale. In un editoriale pubblicato pochi giorni fa su queste pagine, oltre agli auguri si trovava un invito alla consapevolezza. Su ciò che è il Natale e su noi stessi. Altro che renne sorridenti e code alle casse: dobbiamo a noi stessi un lavoro di scavo per capire innanzitutto chi siamo e come stiamo. E poi se volessimo provare a riabilitare questa festa ipertrofica e malaticcia potremmo chiederci da dove viene e magari intravederne il significato originario, di matrice religiosa ma potente anche per i non credenti. Ora sembra così distante che solo pochissime persone lo conoscono e lo celebrano per il suo valore.
Naturalmente siamo ricaduti nell’ennesimo appello al recupero dello spirito del Natale. Ma la banalità, persino la fastidiosa ripetitività, possono celare delle verità importanti. Del resto qual è l’alternativa? Ne vedo due. Una è fare come il cappellaio matto di Alice e festeggiare i non-Natali che vogliamo, quando vogliamo. E’ un’opzione meno stupida di quanto la contraddizione logica cui mette capo può far pensare. E’ un po’ difficile da praticare però, perché gli altri tendono a prenderti per pazzo. E non sempre hanno torto.
Oppure si può abolire il Natale. Un’idea un po’ antipatica perché lascerebbe un vuoto, ma abbiamo davvero voglia di tenere vivo un rituale stanco e anonimo che ci vuole allegri senza darcene i motivi? Potremmo sempre inventare una nuova festa, secondo i bisogni e i desideri profondi che abbiamo ora. Magari una in cui si celebra un bambino appena nato, segno di una speranza nuova, che ci racconti valori a cui potremmo sentirci vicini per stare insieme e prosperare. Forse basterebbe questo: un nuovo nome.
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