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CANOTTIERE SENZ’ANIMA. LO STEREOTIPO, CATARATTA DELLE RELAZIONI SOCIALI
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Stefano Zoja
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Si sono conosciuti da poco e sono seduti al pub. Lei gli domanda come si vede fra cinque anni. Lui si tira indietro sullo schienale, senza guardarla negli occhi e abbozza: “Bella domanda, credo che mi sarò fatto la motocicletta..”.
Sorride e spera di cavarsela così. Oppure sono in soggiorno, lui seduto in una posa leggermente tesa, lei in piedi, concitata come si conviene. Stanno discutendo di qualcosa. Di lui che la sera prima l’ha fatta aspettare mezzora. Lei agita il suo animo ferito, ma lui sopra quel camion della spazzatura proprio non poteva volare. Oppure sono passati vent’anni e lui, vitreo, segue “Domenica Sprint”, mentre lei lo reclama per la tombolata dalla mamma. La risposta di lui ha un suono primitivo. Nella versione più trash possiamo utilizzare i trasferelli e aggiungere a lui una canottiera a costine verticali. E’ bianca e si tende all’altezza dell’addome floscio di birra. A lei potremmo applicare un po’ di cetrioli e crema in faccia. Stereotipi a buon mercato, a volte caricaturali. Fantozzi, Alberto Sordi e Antonella Clerici, con stili diversi, ci hanno conquistati così.
Dei rapporti fra uomo e donna si è occupata una ricerca dell’Università di Trieste, riportata recentemente da La Repubblica. “Uomini e donne, divisi dalle parole” era il titolo dell’articolo: la ricerca si occupava del differente atteggiamento nella comunicazione con l’altro sesso. Condotto su un campione di trecento ragazzi fra i venti e i trent’anni, lo studio è stato realizzato attraverso una serie di domande chiuse che misuravano le opinioni degli intervistati. I risultati sono parsi prevedibili: le donne cercano di stabilire una comunicazione più emotiva e personale, tendono ad ascoltare di più, a essere meno volgari e a parlare maggiormente di se stesse; gli uomini sono più concreti e meno coinvolgenti, parlano di argomenti esterni alla relazione (come il calcio o la politica) e ascoltano meno.
Il rischio di questa ricerca – e di altre simili – è , più che descrivere com’è la realtà, il tendere a far rieccheggiare alcuni stereotipi, rafforzandoli. Un primo rilievo sta nel fatto che in questi studi non si è potuto osservare il fenomeno così com’è, ma si è chiesto alle persone un parere. Se si domanda a una persona come crede che si dispieghi un certo fenomeno, il risultato sarà un’opinione, non un fatto. E – secondo problema – come si forma un’opinione? Non solo sulla base delle esperienze individuali, ma anche attraverso i racconti degli altri, le ipotesi sentite più spesso, e magari gli articoli letti sui giornali. Come, ad esempio, il reportage della nostra ricerca... Per questo non c’è solo il rischio che venga misurata un’opinione e non un fatto, ma anche che questa, rilanciata dai giornali e poi dalle bocche delle persone, si consolidi.
L’effetto è che le ricerche più che (cercare di) rilevare un fenomeno, contribuiscono a crearlo, diffondendo alcuni stereotipi che colano nel discorso pubblico. Naturalmente i ricercatori conoscono questi rischi e cercano di ovviare in diversi modi. Nè tale argomento basta a gettare via i risultati di queste ricerche. Ma la questione è seria e cruccia molti sociologi. Oltre a calare un velo davanti agli uomini profondi o alle donne capaci di leggerezza.
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