L'articolo che segue è stato scritto prima dei tragici attentati di Londra.
L’ottimo scrittore Aldo Busi dice in un suo ultimo libro –ma forse lo dice da sempre-: “io è un pronome collettivo”. L’io, cioè, questo piccolo e vitale nucleo attorno al quale sembra ruotare il resto del globo con le sue vicende, è soprattutto l’estrema sintesi di una responsabilità sociale e civica che non si può e non si deve dimenticare. Qualsiasi attività si svolga nella vita, qualsiasi fortuna o sventura si debba sostenere bisogna ricordare questo: che ciascuno di noi, per quanto libero, è il frutto di un contesto. Grazie al contesto, nel bene e nel male, esiste la possibilità di essere quel che siamo, di fare quel che facciamo.
I problemi dell’aria, dell’inquinamento, lo scioglimento dei ghiacciai, il surriscaldamento terrestre, la morte di un bambino africano, la difficoltà economica di paesi in cui manca l’acqua, l’elettricità, la possibilità di esportare a prezzi equi e concorrenziali: tutto questo ‘ci’ riguarda. E non solo perché questa Terra ci appartiene, è il nostro patrimonio –di tutti, non solo di chi può materialmente e prepotentemente gestirla- ma perché la voce di ciascuno ha un’eco e può aspirare a raggiungere mete importanti.
Il concerto del Live 8, che si tenuto qualche giorno fa e ha visto l’impegno e la speranza prendere forma in una manifestazione di respiro globale, ha tentato di formulare un messaggio: una forma non-violenta per chiedere qualcosa a chi sa, a chi può, a chi ha il dovere e la responsabilità di tutelare l’umanità nella sua interezza.
Il discorso d’apertura pronunciato da Blair è sembrato cordiale ma fermo, preciso e ben determinato a venir fuori da questo incontro con una soluzione non solo verbale ai quesiti e alle problematiche pur complesse che si affronteranno. Certo, tre giorni per risolvere le situazioni più drammatiche del pianeta sono davvero pochi! Magari ci si aspetterebbe una settimana, un mese…
Ma forse loro, i ‘grandi’ è già da un po’ che ci pensano; ognuno avrà formulato la propria equazione, il proprio pensiero matematico in merito e sarà solo questione di correggere i compiti e premiare chi ha capito meglio la lezione!
Si legge sui quotidiani di questi giorni che sarebbe importante per l’Africa non tanto la cancellazione del debito ma l’immissione sul mercato a prezzi equi: vuol dire che l’Africa deve poter esportare i propri prodotti, avere facilità di entrate e uscite alla dogana (in alcuni paesi ancora oggi il tempo richiesto per lo scarico merci è di un mese), e insomma cominciare a cercare indipendenza piuttosto che continuare a ricevere aiuti, elemosine, beneficenza.
Anche lo spirito di compassione che giustamente spinge ogni abitante della parte ricca del mondo a guardare con occhi amorevoli e con un comprensibile senso di colpa quelli che ancora muoiono non solo di fame ma di sete e di elementari malattie dovrebbe alla fine trasformarsi per una lotta di diritto: non c’è una parte buona del mondo che generosamente è chiamata a occuparsi della parte meno fortunata. C’è un diritto all’esistenza da restituire.
Al popolo africano spetta la possibilità di diventare ricco, di essere semmai –in un prossimo domani- il diretto concorrente dell’economia occidentale. Ecco, di questo spaventoso spettro bisogna liberarsi: quello che vede in ogni futuro benessere altrui una forma d’impoverimento propria. Quello che succede tra persone si ripete tra i popoli.
Non bisogna essere avari, non bisogna cedere all’invidia, alla paura. La felicità è una forma di partecipazione. E il riscatto della morte che oggi vaga indisturbata nel continente africano renderà tutti un po’ più liberi, tutti meno soli.
La musica ha consegnato il proprio contributo all’orecchio degli uomini politici, ha dato il ‘la’ a questa importante riunione. Si spera che anche le voci dei milioni di persone che cantavano in quello storico concerto possano sentirsi dare le risposte che chiedevano.
Conoscere la terra che abiti è benessere
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