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L’ENFANT – UNA STORIA D'AMORE...DUE RECENSIONI
TITOLO ORiGINALE: L'enfant
REGIA: Jean-Pierre e Luc Dardenne
CON: Jérémie Renier, Déborah François,
Fabrizio Rongione, Olivier Gourmet
BELGIO/FRANCIA 2005
DURATA: 100 minuti
GENERE: drammatico


RECENSIONE di Lorenzo Corvino
VOTO: 8


Un giovane borseggiatore che vive di espedienti e furti, che si ricovera in un piccolo stanzino abusivo sul terrapieno a ridosso del fiume, compirà una serie di azioni sconsiderate che innescheranno una catena di ripercussioni drammatiche per lui, per la sua compagna e il loro figlio appena nato, dalle quali tuttavia ci sarà una via d’uscita riabilitante.

Dicono i maligni che i Dardenne fanno sempre lo stesso film. Forse è vero, ma quel che accomuna i loro film è lo stile asciutto e rigoroso di un cinema senza fronzoli, senza musica che non sia la colonna sonora dell’ambiente in cui agiscono i loro personaggi. Le loro scenografie sono il mondo reale, la fotografia è quella dei colori così come la quotidiana esistenza li accosta, senza cercare il bello nella mistificazione dei costumi di scena o dei set costruiti a partire da idee preconcette. Essi sono socialmente funzionali ai personaggi che vi vivono, senza cercare la giusta disposizione che sarebbe necessaria per una fare una bella inquadratura.

Nel loro cinema è molto importante l’habitat in cui si svolgono le peripezie dei protagonisti. La macchina a mano in quest’ultimo film è per giunta meno frenetica e più fluida, persino più calma dell’altro film che ha vinto la palma d’oro oltre a questo, ossia Rosetta del 1999. Insieme a Coppola e a Kusturica loro possono vantare di aver vinto due volte Cannes, e se continuano su questa strada è facile che tra qualche anno si trovino un altro film per le mani che unisce rigore formale e contenuto valido come è avvenuto per Rosetta e per quest’ultimo, ed allora ecco: sarà nuova palma.

Il film presenta molte sequenze degne di diventare archetipiche, veri emblemi che si fisseranno nella mente degli spettatori. Dal ragazzo che vaga con la carrozzina vuota per la città, sui cavalcavia, alla fuga in scooter, fino al bagno nell’acqua gelida.

Il film conta pochissimi dialoghi in linea con le loro altre sceneggiature, ma rispetto agli altri loro film precedenti questo ha un intreccio complesso e affascinante che crea una suspance efficace e di grande tensione drammatica che si lega perfettamente al ritmo dato dalla loro macchina da presa così attenta ai tempi morti della vita di tutti i giorni. Se Il figlio, loro film precedente di tre anni fa, funzionava meno per la scelta di impostare il racconto troppo sul piano morale di cosa è giusto o sbagliato fare quando un padre scopre colui che ha causato la morte del proprio figlio, e pertanto si gioca troppo con il coinvolgimento emotivo dello spettatore, quest’ultimo pontifica di meno e scava di più con i fatti e non con le supposizioni nelle scelte dei protagonisti, quando questi compiono determinate azioni. Quasi, verrebbe da pensare, un lucido documentario ben camuffato da finzione. Non poteva non essere uno dei migliori film della competizione cannense.

RECENSIONE di Claudio Lugari
VOTO: 8


I fratelli Dardenne ci avevano mostrato con i loro precedenti film “Rosetta” e “Il Figlio” come il cinema del disagio sociale o Neorealismo poteva essere fotografato aspramente in presa diretta e con i piani sequenza dei sofferenti volti dei protagonisti.

Anche “L’Enfant” è un film vivo, che traspira emozioni e stralci di vita tristi e solitari.
I protagonisti della storia sono due giovanissimi ragazzi, poco più che maggiorenni, che vivono ai margini di una grande città francese, ma potrebbe essere benissimo una qualsiasi capitale europea.

L’emarginazione e la ricerca della maturità e della consapevolezza di esser diventati grandi sono i fulcri della vicenda che ha inizio con la nascita del piccolo Jimmy e dei primi dissapori umorali che questo avvenimento suscita nella coppia.

La madre sembra aver coronato il suo sogno, quello di avere un neonato per le mani, anche se nella sua giovanissima vita non c’è ombra di un lavoro e tanto meno di soldi per sfamarlo, dall’altra parte il padre vive di espedienti, ruba e combina piccoli traffici assieme a “mocciosi” che tratta come fratelli minori; l’arrivo del bambino gli fa capire che i “sacrifici” per racimolare contanti dovranno essere maggiori e soprattutto i beni di consumo più superficiali dovranno essere dimenticati.

L’immediatezza e l’irrazionalità vengono ben filmate dai due registi che documentano, facendo entrare lo spettatore nello strazio e nella vuotezza triste dei due protagonisti, la vita reale fatta di stenti e pazzie.
Bruno, il giovane padre, decide di vendere il bambino con la leggerezza di chi ha l’intenzione di dar via un paio di vecchi guanti usati e con la stessa naturalezza confessa il tutto alla sua “dolce” metà, provocando in lei un senso di vuoto e di incredulità.

Il mondo sprofonda, le idee non sembrano più chiare, i due protagonisti si rincorrono senza più capirsi, forse senza più amarsi, nel loro pazzo di modo di vivere la vita con impudicizia e puerilità. Eppure, la maturità arriverà e si materializzerà, sfocata e vacillante, alla fine del film, lasciando nella bocca dello spettatore un sapore vero, amaro, comunque duro da addolcire.

Trionfatore all’ultimo festival di Cannes.



(03/01/2006)


Amare l'arte è benessere

  
  
 
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