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Certo non si può dimenticare che l’impeto e la voglia di avventura di quegli anni, non solo permisero al fotografo di sfiorare luoghi in cui l’occhio comune non sarebbe potuto giungere, ma gli consentirono di intraprendere una delle esperienze lavorative più invidiate nel mondo della fotografia. Insieme ad alcuni suoi amici e colleghi tra cui Robert Capa e Chim Seymour (conosciuti nel periodo di collaborazione al quotidiano comunista francese Ce soir, di Louis Aragon), decise infatti di dare il via a quella che sarebbe diventata l’agenzia fotografica più importante del mondo, fondando la Magnum Photos nel ’47.

Pur essendosi affermato come modello da seguire in campo fotografico, Bresson non ha tuttavia mai abbandonato il suo amore per la pittura, e lo dimostrano non soltanto la scelta di tornare ai pennelli negli ultimi anni di vita, ma anche le copertine delle sue raccolte: Matisse per “Images à la sauvette” del 1952, Mirò per il volume “Les Européens” del 1955.
Nelle sue istantanee, però, non trova spazio il colore, né la parola. Così l’essenza di ciò che è stato, nella sua tragicità ed estrema bellezza, si fa strada nella memoria dell’osservatore, tra ciò che è bianco e ciò che è nero, nell’oggettività di un’immagine pura, libera da commenti forzati, e per questo suscettibile ad interpretazioni opposte, accompagnata al massimo da una scarna didascalia di data e luogo.
“Le mie foto sono un’osservazione intuitiva del mondo esterno. - afferma Bresson in un discorso riportato sulla rivista Photo (giugno 1975) per presentare alcune foto inedite da lui preferite - Esse derivano dall’inconscio e dalla sensibilità, non da un concetto o da un’idea.”
Eccole le foto che Bresson ritiene più preziose, non didascalizzate, parlano da sole: gambe eleganti intrecciate di una donna che legge in penombra, cumuli di macerie, bambini che corrono felici sul marciapiede di una strada percorsa da un carro funebre, nudità che prendono il sole, malati malformati sorpresi a dormire nella miseria di scale di pietra.
“Sono un fotografo da marciapiede, il mio mestiere è nella strada, la mia conoscenza è intuizione”, niente regole dunque, se non quella di lasciarsi stupire dalla spontaneità dell’accadere, fotografare l’errore.

Insomma, ci piace ricordarlo così: poetico, sensibile, essenziale, curioso, immortale nei suoi scatti.
Ma queste sono solo parole, inutili, vincolanti “sviolinature” come amava definirle lui. Forse è arrivato il momento di meritato silenzio. Che parlino le immagini.




(09/08/2004) - SCRIVI ALL'AUTORE


Amare l'arte è benessere

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