Forse non è un caso che nel mese di gennaio in cui si celebra il giorno della memoria in ricordo della "Shoah, le leggi razziali e tutti quanti si opposero alla barbarie", l'editore Feltrinelli abbia deciso di stampare nella collana Universale Economica uno dei più intensi libri dedicati al mondo dei campi di concentramento, quell'Essere senza destino che, più di ogni altra sua opera, valse allo scrittore ungherese Imre Kertész il Premio Nobel nel 2002. Largamente ispirato alle vicende biografiche dello stesso Kertész, Essere senza destino (traduzione di Barbara Griffini) è la storia di Gyorgy, un quindicenne ebreo di Budapest, che un giorno mentre sta dirigendosi verso il suo campo di lavoro obbligatorio insieme ad altri suoi compagni, viene prelevato dalla polizia per essere deportato prima ad Auschwitz e poi a Buchenwald. Ciò che rende questo libro diverso - e forse unico - tra tutti quelli che sono stati scritti sul mondo concentrazionario, è dovuto principalmente agli occhi attraverso i quali il lettore scopre i campi di concentramento. Tutto infatti è colto attraverso il filtro del narratore quindicenne protagonista, che racconta quello che vive con una oggettività senza scampo, che gli deriva in parte anche dal suo non voler considerare la tragedia di cui è vittima da un punto di vista trascendentale, come invece fanno altri che dentro al campo si affidano comunque al volere di Dio. Ma, devo ammettere, parlare di questo libro è difficile, così come è difficile parlare di tutte quelle opere che sono nate da chi ha attraversato in prima persona Auschwitz, "la frattura etica più grande in duemila anni di storia", perché ogni volta si rischia di impantanarsi nelle banalità in cui sguazza il giornalista che Gyorgy incontra una volta tornato, a guerra finita, a Budapest, banalità che sottolineano più volte la distanza che separa chi ha vissuto la Shoah respirando il fumo dei camini che incenerivano gli uomini e chi invece ne ha sentito solo parlare e per questo, anche pieno delle migliori intenzioni, si riempie la bocca di espressioni retoriche, se non addirittura di propaganda, come "l'inferno dei lager". Ed è contro espressioni come questa, che tendono ad allontanare in una dimensione irreale e quasi a-storica la vicenda invece tutta reale e pienamente storica dei campi di concentramento, che il protagonista si scaglia nell'ultimo capitolo, il meno narrativo e insieme il più concettuale del romanzo. È in queste ultime pagine che il narratore ricorda ad ognuno i passi che ha compiuto, perché sono quei passi fatti
dagli uomini che hanno portato ad Auschwitz, e non un destino inevitabile: "se esiste un destino, allora la libertà non è possibile; se però la libertà esiste, allora non esiste un destino, il che significa che noi stessi siamo il destino". Un destino che, come è ricordato nella straordinaria pagina finale del libro, nasce sempre dal desiderio di vivere che dimora nell'assurdità di esistere ( "io ci sono e so bene che, pur di poter vivere, il prezzo che pago è di accettare qualunque punto di vista" ), e che è capace di trovare "persino là, accanto ai camini, nell'intervallo tra i tormenti, qualcosa che assomigliava alla felicità".
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