George Orwell fu intuitivo al punto da inventare il Grande Fratello. Non il concetto, naturalmente, che colse dai regimi totalitari, ma l’etichetta, che usò per descriverne l’apparato di controllo delle menti e delle persone. Il successo dell’idea fu tale che la ripresero in tanti nei decenni a venire, dentro la televisione e fuori, rimuovendo dall’immaginario collettivo chi ne fosse stato l’autore, e quando (1948, anno in cui stese 1984, uno dei migliori romanzi politici della storia), e perché.
Ma Orwell si spinse più lontano: raccontò la Rivoluzione russa e l’impero sovietico nella forma della fiaba, attraverso maiali, cani, pecore, cavalli. Era il 1943 quando terminò la sua opera più divulgativa, incrociando l’immaginario inquieto dei dipinti di Grosz con una trama che riecheggiava Disney. Naturalmente chi non voleva capire si rifiutò di farlo anche allora: in quegli anni l’Inghilterra era alleata con l’Unione Sovietica contro la Germania nazista e Orwell dovette subire quattro rifiuti prima di trovare un editore disposto a pubblicare un’opera che poteva infastidire Stalin.
E come non vedere, del resto, Stalin trasfigurato nel compagno Napoleon, un grosso maiale senza particolari qualità, se non una notevole intelligenza, comune peraltro a tutti i maiali, e un’assoluta mancanza di scrupoli? Un maiale come tanti altri, forse anzi peggiore, per esempio più spietato e codardo di Palla di neve, alias Trotsky, sconfitto nella lotta per il potere successiva alla rivoluzione, allontanato dalla fattoria e calunniato.
La trama come si intuisce è semplice: racconta la Rivoluzione russa, a partire dai suoi ispiratori ideologici, Lenin e, più indietro, Marx, ravvisabili nel Vecchio maggiore, un anziano e rispettato verro. Questi incita gli animali a ribellarsi contro l’uomo che controlla la fattoria, il signor Jones, simbolo di svariati mali: lo zar, il capitalista sfruttatore e, dopo il suo allontanamento dalla fattoria, anche del fascismo.
Qui comincia la storia della progressiva corruzione di questi ideali, che vedrà la classe dirigente dei maiali assumere sempre più potere e privilegi, mentre il resto degli animali verranno assoggettati a una vita di fatiche senza diritti, sotto il controllo di una micidiale macchina propagandistica.
Ciascun personaggio e ciascun evento ha un proprio corrispettivo storico. Per esempio le pecore sono la massa ottusa, il corvo rappresenta la Chiesa ortodossa che spalleggia il potere, mentre la cacciata di Jones richiama la Rivoluzione d’ottobre. Il lettore appassionato di storia che volesse decodificare tutti i riferimenti avrà di che divertirsi. Ma le dinamiche generali del potere dittatoriale, e non solo, sono intuibili da chiunque.
L’ingranaggio creato da Orwell è angosciante, perché la fiaba allegorica persegue lo straniamento. Riconosciamo a ogni capoverso che tutto è verosimile e drammatico. E diversamente da ogni fiaba qui la magia non può salvare nessuno, per questo è opprimente prevedere il futuro del vecchio cavallo Gondrano o dell’asino Benjamin: sapere che l’orizzonte è chiuso al di là di qualsiasi loro (limitata) immaginazione.
Ed è illuminante come il rafforzamento del controllo passi dalla cultura, dalla propaganda e non dalla violenza. Quasi mai viene usata la forza nella fattoria, e raramente il maiale Clarinetto, simbolo della propaganda, è costretto a mentire: spesso bastano, una mezza verità, o un’omissione. Il potere è subdolo e burocratizzato, crea confusione più che menzogne. Ed è raccapricciante l’ingenuità e spesso l’adesione incondizionata degli altri animali, di fronte alle verità dei maiali. La dittatura ha scritto le regole della comunità su un muro, e spesso le manomette nottetempo, ma nessuno sa leggere e può contestare.
L’allegorico smascheramento della manipolazione propagandistica è forse il valore più alto de La fattoria degli animali, così come accadrà per 1984. Come in ogni altra dittatura – e in una certa, anestetica dose, nelle democrazie – il controllo del sapere è vitale per il potere, ed è la vera arma. Per questo un’improbabile fiaba scritta oltre sessant’anni fa è diventata una lettura urgente oggi. E per lo stesso motivo, senza saperlo, abbiamo già eletto Orwell a cantore dei nostri tempi.
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