Il televisore è un elettrodomestico, esattamente come il frullatore. Anche i frullati, come i programmi televisivi, possono essere ottimi o pessimi a seconda degli ingredienti che qualcuno ha deciso di usare. E nessuno, assaggiando un beverone acido, si sognerebbe mai di dare la colpa al frullatore. Eppure è ciò che accade con la televisione: che è “di cattiva qualità”, che “trasmette solo violenza e donne nude”, che addormenta le coscienze. Così l’untore della nostra cultura è un parente prossimo del tostapane e nessuno si azzarda a dire male dei dirigenti e degli autori televisivi.
A questo siamo arrivati con l’avvento della televisione commerciale, il cui prodotto non erano programmi televisivi, ma teste di spettatori dar rivendere agli inserzionisti pubblicitari, nel numero più alto possibile. In Italia erano i primi anni ottanta e il servizio pubblico della Rai si accodò rapidamente. Svanì l’epoca degli sceneggiati televisivi di qualità, tratti da capisaldi della letteratura o del teatro; si perse la storica Rai delle tre “i”, informare, intrattenere, istruire, che differenziava i palinsesti, curava la qualità, faceva persino sorridere nella strenua difesa della morale.
Eppure nemmeno la Rai di Bernabei, storico direttore generale fra il 1961 e il 1974, era un’oasi della buona e differenziata cultura. Quando Ronchey nel 1973 inventò il termine lottizzazione, aveva in mente quella Rai, i cui lunghi corridoi erano percorsi da emissari politici di varia provenienza, oltre al codazzo di amici e parenti. Eppure quella Rai manteneva un senso del servizio pubblico. La sola politica non era bastata a stravolgerne la missione, per quello servì il mercato, negli anni ottanta e oltre.
Arriviamo ai giorni nostri, alle ultime settimane. La Rai si dibatte tra il fango delle intercettazioni sul pastrocchio Rai-Mediaset rilanciate da Repubblica e la gloria degli ascolti di una nuova “buona televisione” realizzata con gli show Celentano e Benigni. Da una parte il peggio del collateralismo di matrice politica, dall’altro un’audacia quasi insperata nel promuovere contenuti diversi e migliori. Il nostro servizio pubblico sembra in mezzo al guado.
Al centro dello scandalo che non scandalizza, quello dell’inciucio Rai-Mediaset testimoniato da intercettazioni relative al 2005, c’è il rischio del collasso completo del servizio pubblico. La Rai che con l’avvento delle televisioni private (di Berlusconi) le aveva inseguite, smettendo di pensare ai bisogni degli spettatori e dedicandosi a quelli delle aziende, ha fatto un ulteriore giro di valzer con la discesa in campo del proprietario di quelle televisioni private (cioè Berlusconi), svendendo i residuali bisogni degli spettatori (peraltro inconsapevoli di tutto, compresi i propri bisogni) all’allora premier e alle sue attività.
Il già misero duopolio scoloriva in una televisione monoblocco; il mostro era tanto più brutto perché non lo si vedeva, nascosto dietro musiche, colori e sorrisi. Così in una serata qualsiasi si potevano sorbire quasi ovunque gli stessi reality show e serial, e anche la stessa informazione. La lottizzazione è roba da brontosauri, oggi bastano un paio di telefonate, che fra giornalisti e dirigenti tv ci si intende meglio.
Questo accadeva due anni fa. Quanto sia stato differente prima e dopo non lo sappiamo, non ci sono intercettazioni. La Rai in questi giorni ha avviato un’inchiesta interna e forse ha avuto termine il collateralismo quotidiano fra i due colossi tv. Ma è difficile pensare che se ne esca tanto facilmente, così come è difficile immaginare che una Rai privatizzata sarebbe una Rai non lottizzata. Ma a questo siamo, alla Rai privatizzata? Se ne parla come dell’accettazione di un male minore, l’eutanasia per un organismo infettato da troppi virus. Al suo capezzale diversi manager si fregano le mani.
In questi giorni però la Rai ha calato due assi, e non nella riserva indiana di Rai Tre, l’ultimo baluardo di un servizio che si possa dire pubblico, ma in prima serata sul primo canale. Celentano e Benigni. Due personaggi eccentrici e fuori dal tempo, talmente carismatici da avere ricevuto carta bianca per le loro trasmissioni. Il primo ha proposto le sue riflessioni popolari e alternative, figlie della via Gluck; l’altro si è spinto ancora più lontano raccontandoci Dante Alighieri. Appena ci si allontana dal mainstream, si trovano spunti per raccontare un’Italia diversa. Svapora l’omologazione duopolistica e lo spettatore può respirare. E qualcuno questi format li ha pensati, e qualcun altro li ha autorizzati.
Torniamo agli uomini che scelgono di cosa riempire la televisione. E vediamo un servizio pubblico in bilico tra servilismo e proposta intelligente. Così come l’inciucio e la lottizzazione moderni non sono più quelli di Bernabei, anche Benigni e Celentano non sono eredi diretti della televisione pedagogica dei primi decenni. Sui loro palchi oggi si vuole vincere soprattutto la battaglia dello share. Ma le tendenze di fondo, i dilemmi, pur nella loro esasperazione, si assomigliano ancora. E dietro al televisore, e al servizio pubblico, ci sono sempre delle persone che scelgono.
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