Gli era capitato di farsi dei nemici per strada – il fascismo, Tambroni, Berlusconi – ma non si poteva fare altrimenti. “Ci sono momenti in cui si ha il dovere di non piacere a qualcuno”. E la forza di queste parole era nella neutralità e nella dolcezza della voce, più che nel significato, che sarebbe stato facile gonfiare con l’intonazione o con le spalle. Aveva chiamato “inconveniente tecnico” la sua estromissione per cinque anni dalla televisione. Non era un vezzo, era uno stile. Lo stesso con cui ricordava: “mia madre, terza elementare, mi diceva: ‘mai dire bugie’”. Aveva ottantasette anni, usava quelle parole come un manifesto e noi potevamo credergli.
Una ricognizione dell’informazione ci farebbe capire rapidamente perché, al di là della retorica, una persona come Biagi mancherà tanto al dibattito pubblico. L’Italia è il paese del duopolio televisivo, dell’assenza dell’editoria pura, delle lottizzazioni, dei collateralismi. E’ la nazione che è riuscita a tenere assieme il quieto vivere con il più scarso senso della collettività. I giornali non si leggono, il modello informativo prevalente è quello del “panino” dei telegiornali, delle domande concordate in modo implicito o diretto, dei talk show urlati.
Biagi, e i pochi come lui, non avevano la possibilità di incidere direttamente su questo stato di cose. Il sistema informativo, sempre più effetto e ormai concausa del sistema castale italiano, esiste e persiste comunque. Ma la semplice presenza di Biagi costringeva al confronto. Quello col fascismo, sessant’anni fa fra le montagne del nord, era stato armato. L’editto bulgaro, che aveva silenziato un volto storico della televisione italiana, altrettanto aveva costretto a schierarsi. E con la semplicità delle parole che usava nei suoi articoli, interrogava la coscienza dei lettori e ancora più quella dei colleghi.
Certamente esistono oggi parecchi buoni giornalisti in Italia, più di quanto racconti certa retorica disfattista. Le inchieste di D’Avanzo, Bonini, Gatti su carta, quelle di Report e Iacona in tv, l’ostinazione di Travaglio, l’onestà intellettuale di alcuni editorialisti. E tanti altri casi, anche se minoritari, di giornalisti che hanno il senso del loro servizio. Alcuni di questi personaggi sono molto battaglieri, anche più di Biagi, che non aveva l’animo del barricadiero.
Ma il giornalista d’assalto, il vendicatore dei torti, è un segno dei tempi. Biagi mostrava una qualità simile, eppure diversa: la schiena dritta. Era figlio dei tempi in cui si erano presi in mano i fucili, si era lottato per la storia, per dei valori condivisi. Poi aveva lavorato dentro una società povera che diventava benestante, che imparava a conoscere i diritti e li richiamava a gran voce se venivano sospesi.
Oggi si combatte una battaglia più sporca e silenziosa dentro una società infiacchita. Oggi serve il giornalista ribelle, il quasi eroe senza macchia, magari persino capace di modestia. Ma l’idea del giornalista con la schiena dritta oggi non ha più senso, è fuori tempo. Lo scontro si è incancrenito e servono le barricate; l’integrità del Biagi cronista e l’universo cui si riferiva distano molti decenni e soprattutto sono lontani dai nostri discorsi.
Nel senso del giornalismo, e forse anche della storia, è la vecchia questione della moneta cattiva che scaccia quella buona, delle monete di metallo che sostituiscono quelle d’oro, avendone solo uguale valore nominale. Speriamo che almeno l’odierna informazione di valore, che oggi si dice “d’inchiesta”, o si chiama controinformazione, lo abbia conosciuto bene. Finché era in circolazione lui avevamo la garanzia delle sue domande inattuali, e per questo utilissime.
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